Editoriale. La Consulta ribadisce il primato della vita
Il tema era importante, se possibile cruciale. Alla Corte si domandava se non fosse irragionevole consentire l’assunzione di un farmaco letale ai soli pazienti tenuti in vita da un trattamento di sostegno vitale e non a quelli che, seppure nelle identiche condizioni di sofferenza intollerabile, non sono sottoposti a presìdi sanitari invasivi. La Consulta spiega che nella vicenda del suicidio assistito ci troviamo davanti a un’eccezione e non a una regola. La regola è la tutela della vita, l’eccezione è la sua interruzione. Tale eccezione nell’ordinamento italiano è disciplinata da una legge (la n. 219 del 2017 sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento) che consente di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento sanitario necessario ad assicurarne la sopravvivenza.
Non vi è, in altri termini, un generale «diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile, fisica o psicologica, determinata da una patologia irreversibile». E si faccia attenzione che negli ordinamenti statali, diritto e libertà non coincidono. Il primo richiede che lo Stato e la comunità diano attuazione alla richiesta, il diritto appunto, di chi reclama di essere aiutato a morire. La libertà, invece, resta un desiderio, un anelito che non comporta obblighi di assecondarla, né per lo Stato, né per i consociati. Anzi, se una libertà come il desiderio di morire, viene facilitato da un altro soggetto, questi compie, di norma, un reato. Essendo dunque un’eccezione, la Corte non ritiene che si realizzi una disparità di trattamento tra pazienti che dipendono da trattamenti di sostegno vitale e pazienti che non vi dipendano. Anzi la Corte ritiene – giustamente – che il requisito “oggettivo” dell’essere sottoposti a un presidio sanitario eviti che si finisca per creare una «pressione sociale indiretta» su persone malate o semplicemente anziane e sole, le quali – sono parole della Corte – «potrebbero convincersi di essere divenute ormai un peso per i propri familiari e per l’intera società, e di decidere così di farsi anzitempo da parte». Da un lato, dunque, il principio dell’autodeterminazione, apparentemente alta espressione della libertà individuale e della dignità personale, che usando ancora le parole della Corte, «evoca l’idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte». Dall’altro, i limiti proposti dall’ordinamento, che la Corte condivide in nome della «necessaria sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana». Il compito di tale bilanciamento spetta al legislatore. Il cosiddetto “margine di apprezzamento” nelle vicende delicatissime del fine vita resta così nella disponibilità delle scelte dell’ordinamento e in Italia si è ritenuto di aggiungere ai requisiti della malattia irreversibile, della scelta consapevole e della sofferenza intollerabile anche il requisito oggettivo del trattamento del sostegno vitale. La via italiana, secondo la Corte, è legittima e corrisponde a quanto già recentemente ha sostenuto anche la Corte europea dei Diritti dell’Uomo.
Nella decisione, la Corte compie però anche un passo ulteriore e prende posizione su cosa debba intendersi per trattamenti di “sostegno vitale”. Il Comitato Nazionale di Bioetica in un recentissimo parere aveva, a larga maggioranza, ritenuto di individuare il sostegno “che tiene in vita” nel trattamento sanitario sostitutivo di funzioni vitali (io stesso ero tra questi). La Corte sembra piuttosto sposare, invece, una posizione per la quale il sostegno vitale non coincida necessariamente con una completa sostituzione di funzioni vitali, ma possa esserlo anche il trattamento che si riveli in concreto necessario «ad assicurare l’espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo». Tale estensione – secondo la Corte – deriva dalla circostanza che la legge 219/2017 sul consenso informato già consentiva di rifiutare tali trattamenti, con la conseguenza però – per quella legge – di accedere al trattamento della sedazione e non all’assistenza al suicidio. Il che non è una differenza di poco conto.