La gente. La gente è stata la vera protagonista. Sì, ci sono i padiglioni, alcuni disegnati benissimo, molti capaci di idee senza limitarsi alla celebrazione delle proprie glorie alimentari. «La gente si è impadronita dell’Expo» commentava sabato pomeriggio il commissario Giuseppe Sala, nel convegno del Ministero dell’Ambiente dove la nota peculiare erano i sorrisi da qua fin là di ministri, presidenti e direttori. Niente di più vero. La gente non è andata all’Expo. La gente l’ha invaso, inondato, saturato. In un crescendo inarrestabile. È probabile che nell’ultimo week end i visitatori abbiano superato il mezzo milione, e siamo prudenti. Nel grande piazzale all’ingresso principale, quello di Triulza ovest, dove arrivano i treni, a maggio la fila per i controlli cominciava alla quarta fila di alberelli spenti, bisognosi d’affetto. Sabato scorso la fila partiva appena usciti dal tunnel. Tempo d’attesa: ignoto, un abisso insondabile. A maggio la gente c’era, e tanta, ma quasi tutta dentro i padiglioni e il Decumano, l’arteria di un chilometro e mezzo, larga come un’autostrada a otto corsie, era sgombra e ci passeggiavi serenamente, senza timore di essere investito, travolto, soffocato. Come a ottobre. E gli italiani, i sorprendenti italiani, il popolo più refrattario a sostare disciplinato in coda, non battono ciglio. La leggenda vuole che per entrare nel padiglione del Giappone la coda sia di sette ore, ma forse non è una leggenda. I serpenti di visitatori – gli stranieri ci sono, ma gli italiani restano la stragrande maggioranza – avvolgono i padiglioni in una spirale mortifera, e non per il padiglione. Code mostruose. Code per bere un caffè, code che escono dai luoghi di ristoro e proseguono sul marciapiede. Code per fare la pipì. Code per mangiare due patatine fritte al chiosco belga, code per i waffel, code per gli hot dog al luna park olandese, code per entrare allo stand Lindt per contemplare due nerboruti che girano il mestolo nel calderone del cioccolato, code perfino alle case dell’acqua. Code, code infinite senza il minimo accenno di fastidio, senza alcuna protesta, senza che nessuno sbuffi. La gente sta in coda con un sorriso di beatitudine. Chiacchiera con gli amici, consulta la piantina, commenta «ancora un paio d’ore» come se fossero un paio di minuti. Per chi si trovasse a disagio in mezzo alla calca, Expo sarebbe il peggiore degli incubi. Ma il serpente degli adolescenti s’incunea nel gruppetto di pensionati ansimanti, si mescola, si urta, si districa e ne esce senza una parolaccia, senza neanche una smorfia di fastidio. Che cosa succede? Succede che la gente è felice. Succede che il magico passaparola, complice l’oggettiva bellezza dell’Expo, ha fatto sì che Rho si sia trasformata in una meta irrinunciabile, un luogo dove non si può non andare. Chi ci va, oggi, riesce a entrare in tre o quattro padiglioni al massimo, se è resistente e fortunato. Ma non è questo che conta. «C’ero anch’io», ecco che cosa conta. E se non ci fossi stato, sarei «mancato» in qualche cosa. L’Expo oggi non è più soltanto una esposizione mondiale riuscita. È la meta di un colossale, laicissimo pellegrinaggio per prendere parte a una sorta di laicissima liturgia, a un rito assolutorio dal quale torni a casa sentendoti migliore. I volti – bisogna guardare bene i volti, specialmente di chi verso sera si avvia all’uscita – sono di chi ha ricevuta una laicissima 'grazia'. Possiamo secolarizzarci finché ci pare. Ma fin dalla preistoria la gente ha sentito il bisogno di peregrinare, recandosi devota in luoghi 'speciali', dotati di un 'potere' particolare, incurante della fatica, da cui tornare migliore. Il pellegrinaggio, per funzionare, deve essere collettivo: più si è, meglio si sta, ecco perché nessuno si lagna anche se sul Decumano ci si pesta i piedi. Ecco perché non solo la gente non si lamenta della coda, ma cerca quella più micidiale e, al ritorno, afferma con orgoglio: io, io ho fatto sette ore per vedere il Giappone. E gli amici socchiudono le labbra in un muto 'oooh' di ammirazione. L’Expo è diventato un laicissimo santuario. Non lo è diventato per chissà quale strategia di marketing. Lo è diventato da sé, soprattutto per il gran bisogno inespresso della gente di avere luoghi di pellegrinaggio di forte impatto. L’Expo è una laica cattedrale elevata all’ennesima potenza. E funziona. Sala ha ragione: la gente si è impadronita dell’Expo. O forse l’Expo si è impadronito della gente, vallo a capire.