Le loro fotografie campeggiano da qualche giorno sul viale
Dëshmorët e Kombit, Martiri della Nazione, al centro di Tirana. Lo stesso delle grandi parate di regime, lo stesso dove il dittatore Enver Hoxha aveva fatto edificare il suo mausoleo, un’inquietante piramide di cemento armato che avrebbe dovuto trasmettere ai posteri la sua imperitura memoria. La storia, però, ha le sue nemesi. E ora, mentre l’Albania è in festa per l’arrivo del Papa, quelle fotografie dei martiri cattolici di un regime comunista tra i più spietati del XX secolo sono il segno di quanto grande e folle sia stata l’illusione coltivata da Hoxha e dai suoi emuli d’oltrecortina. L’illusione di cancellare la fede, di instaurare l’ateismo di Stato, di chiudere per sempre il cielo sopra gli uomini. Sembra storia di altri secoli. Eppure è successo solo qualche decennio fa in Europa. E la visita che Francesco sta per compiere nella capitale albanese la ripropone agli occhi di un mondo distratto da altre emergenze, come omaggio alla testimonianza di una Chiesa tra le più provate dalla persecuzione e anche come monito per il presente, ancora una volta segnato dalle spire del martirio, come la cronaca evidenzia purtroppo ogni giorno.
Così, la storia dei martiri albanesi crea un ideale ponte tra il viaggio nel Paese delle aquile e quello nella Corea del Sud, dove i cattolici - sia pure in epoca diversa e per diverse motivazioni - hanno subito persecuzioni analogamente feroci (lo scorso 16 agosto a Seul il Papa ha beatificato 124 persone). In questa occasione, però, il processo di beatificazione è ancora in itinere, per la precisione nella fase della
positio, dopo che l’8 dicembre 2010, nella cattedrale di Scutari, è stata chiusa la parte diocesana dell’inchiesta
super martyrio. Un processo che riguarda 40 martiri, anche se il numero delle persone uccise dal regime
in odium fidei è molto più alto. La speranza, neanche tanto segreta della Chiesa in Albania, è che la visita del Papa acceleri l’iter. Anche perché sulla testimonianza di attaccamento a Cristo dei 40 Servi di Dio sussistono ben pochi dubbi. Tra loro figurano, infatti, due vescovi ( Vincent Prennushi e Fran Gjini), 33 fra sacerdoti diocesani e religiosi (tra i quali nove francescani e tre gesuiti), un seminarista, tre laici e una ragazza, Maria Tuci, aspirante stimmatina. Proprio la vicenda di quest’ultima può essere assunta a simbolo di quella di tutti gli altri. Per la efferatezza delle torture e il coraggio con cui furono affrontate. Maria era una ragazza molto bella. Si oppose alla violenza carnale e per questo fu ripetutamente e selvaggiamente picchiata. I suoi carcerieri le deturparono il volto, la rinchiusero in un bugigattolo senza luce, le consentivano un cambio di indumenti solo una volta al mese e quasi sempre la lasciavano al freddo e sotto la pioggia. Trasportata in ospedale in gravi condizioni, prima di morire nel 1950 disse alla sua amica Divida che andò a visitarla: «Si è avverata la parola del mio persecutore. 'Ti ridurrò in uno stato tale che neppure i tuoi familiari ti potranno riconoscere'. Ma ringrazio Dio perché muoio libera». Cancellare il volto non solo delle persone, ma di una intera Chiesa era infatti il compito che il regime si era dato. Nel Paese a maggioranza musulmana e con una forte presenza ortodossa, la violenza dei comunisti fu particolarmente indirizzata verso i cattolici, soprattutto i sacerdoti, perché essi rappresentavano la parte più evoluta della società. Molti avevano studiato all’estero, conoscevano il mondo e perciò erano perfettamente in grado di smascherare le bugie del regime, ossessionato da possibili attacchi da parte delle potenze occidentali, al punto da far costruire migliaia di piccoli fortini di cemento in ogni angolo del territorio. Tra i più 'pericolosi' (secondo l’ottica del dittatore) don Aleksander Siriani, sacerdote di grande cultura e ottimo predicatore. Fu arrestato, torturato e fucilato nel 1948. Ma di fronte al plotone di esecuzione non ebbe paura. «Colpite. Sto qui, do la vita per Cristo», disse prima di morire. Un fine intellettuale fu anche l’arcivescovo di Durazzo, monsignor Vincent Prennushi, detto il 'Thomas Becket di Albania' per la sua opera di scrittore. Preferì la morte (avvenuta in seguito al carcere duro il 19 marzo 1949), come già aveva fatto il suo predecessore monsignor Gasper Thaci (che però non figura nell’elenco dei quaranta beatificandi), pur di non cedere alla richiesta di Hoxha di creare una Chiesa nazionale (sul modello di quella cinese) antagonista della Chiesa di Roma. Il dittatore ci provò anche con un altro vescovo, monsignor Fran Gjini, ma ricevette la stessa riposta: «Non separerò mai il mio gregge dal Papa».Alla storia di monsignor Prennushi è dedicata anche una piéce teatrale,
Il petalo e il fiore, nata su ispirazione della mostra allestita al meeting di Rimini nel 2012: «Albania, athleta Christi. Alle radici della libertà di un popolo», che presenta le figure dei martiri, inquadrandole nelle vicende della loro Chiesa e del loro Paese. Nel 2009, inoltre, le Clarisse di Scutari hanno ideato una Via Crucis, «Sui passi dei martiri del comunismo (1946-1990)», ambientata nell’ex prigione 'Sigurimi' della loro città. Per ogni stazione la storia di un martire, presentato attraverso lettere e testimonianze di prima mano. Don Shtjefen Kurti, uno dei 40, il 16 ottobre 1946, in una lettera a Pio XII così descrive il doloroso affresco delle sofferenze di un popolo. «Santissimo Padre, le file dei martiri si moltiplicano ogni giorno; nelle carceri, torture terribili sono applicate indistintamente a tutti; migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini, spogliati di tutto e affamati, vengono deportati nei campi di concentramento, nei luoghi più isolati e malsani, dentro case senza porte né finestre, costretti tutto il giorno a duri lavori per un solo pezzo di pane. Allo scopo di indebolire la costituzione fisica dei detenuti e di farli perire per esaurimento e tubercolosi, con un recente provvedimento è stato proibito alle famiglie di portare loro dei viveri». Ma nonostante tutto, il sacerdote mostra il suo attaccamento a Cristo: «Prostrato ai piedi di Vostra Santità, umilmente chiedo la vostra paterna e apostolica benedizione per me, per tutto il clero, per tutto il popolo, affinché siamo sostenuti nella lotta presente senza abbattimento per la nostra fede». Straordinaria è, in questo scenario, la mancanza di ogni acredine nei confronti dei carnefici. Il gesuita Giovanni Fausti, bresciano, fucilato nel 1946, durante il processofarsa spesso veniva esposto al pubblico ludibrio. Un giorno una donna con rabbia gli gridò: «Sparategli una pallottola in fronte». E poi gli sputò in faccia. Lui rispose alzando gli occhi al cielo: «Padre perdonala, perché non sa che cosa sta facendo». E talvolta, pur nello squallido contesto del carcere, avviene anche qualche 'miracolo'. Alla VII Stazione della via crucis Padre Zef Pllumi (morto nel 2007, dopo essere sopravvissuto a 25 anni di carcere e lavori forzati) racconta di quella volta che a Pasqua del 1949, la sorella di un suo compagno di cella, padre Leon Kabashi, riuscì a fargli avere con un sotterfugio un corporale con 50 ostie. Un episodio che riporta alla mente i flaconi di medicinali per lo stomaco in cui il cardinale vietnamita Van Thuan si faceva recapitare il vino per celebrare la Messa al tempo della sua progionia. «Si ripetono nel XX secolo le stesse scene delle catacombe romane», è il commento di padre Pllumi. Quasi un sigillo per la storia che l’Albania ha vissuto sulla sua pelle in 46 lunghi anni e che ora fa da base alla sua giovane democrazia. Forse non è un caso che dopo la tragica sbornia ideologica, oggi il Paese sia un esempio di convivenza pacifica, pur nella diversità culturale e religiosa, che il Papa, proprio con questo viaggio addita all’Europa e al mondo. Il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani, diceva Tertulliano. E dei cristiani nessuna società deve avere paura, ha ricordato il Papa a Seul parlando dei martiri coreani. Anche le foto che campeggiano nel viale principale di Tirana stanno lì a testimoniarlo.