Il populismo è e resta una realtà. La bestia non è imbalsamata
Un voto non basta per mettere la parola 'fine' a una stagione. Sbaglia dunque chi pensa che l’onda populista cavalcata nell’ultimo decennio da diversi leader e forze politiche, in Italia come in tanti Paesi occidentali, sia adesso destinata d’improvviso a placarsi sulla base dei risultati italiani elettorali d’autunno.
È vero: le amministrative nelle grandi città della Penisola e la corsa al dopo-Merkel in Germania hanno dimostrato che il vento in poppa per gli anti-sistema è vistosamente calato. Le difficoltà di Matteo Salvini e della Lega 'di lotta e di governo' in Italia, le tornanti ambasce 'nere' della destra tricolore di Giorgia Meloni, il risultato al di sotto delle aspettative dell’estrema destra teutonica (fatta salva la diversità storica e strutturale dei vari movimenti) sono lì a dimostrare che i consensi sono liquidi e variabili per tutti, esattamente come avviene per i partiti della grande tradizione democratica continentale. I voti catturati in passato non sono una garanzia per il futuro, anzi. Sul mercato del consenso non ci sono più rendite di posizione assicurate.
Detto questo, sembrano stonare la fretta e l’eccesso di entusiasmo con cui i vincitori di questa tornata vorrebbero imbalsamare e archiviare l’animale populista. Che è preistorico ma camaleontico, e sa mutare pelle anche nella nostra modernità. Si rialzerà, l’ha già fatto e lo farà ancora. Prendete il caso francese di Eric Zemmour, il polemista di estrema destra che ha ormai superato nei sondaggi Marine Le Pen, pur non essendo ancora ufficialmente candidato all’Eliseo. Cavalca temi classici, come la propaganda anti-stranieri e la retorica sul declino della cultura nazionale (e francofona), piace alle tv e al sistema dei media, attrae l’interesse e l’impegno militante di una parte dei giovani.
Ricorda qualcosa (o qualcuno)? È come se ci fosse un passaggio di testimone continuo, tra uomini ed epoche diverse, a suggellare la continuità dei populismi. Da Silvio Berlusconi e Ross Perot negli anni Novanta fino agli anni dieci del Duemila, con Beppe Grillo e Donald Trump, gli outsider della 'politica in nome del popolo' ci sono sempre stati e ancora ci saranno. Il primo elemento destinato a giustificare questa continuità, oggi, riguarda senza dubbio la fase storica che stiamo vivendo.
L’uscita lenta e graduale dal momento più caldo della pandemia, con le incertezze sul futuro e l’inevitabile divaricarsi di prospettive tra chi ce la fa e chi no, costituisce una cornice propizia per chi è abituato a dare voce e forze a paure e dubbi nell’opinione pubblica. E (vecchi e nuovi) capipartito parolai potranno verosimilmente continuare a scegliere i cavalli di battaglia più adatti per attirare l’attenzione dei cittadini, cercando così di mantenersi in sintonia con timori, stati d’animo e aspirazioni diffuse tra gli elettori, che si tratti della campagna vaccinale o degli effetti della pandemia sociale su lavoro e sicurezza.
In questo senso, e veniamo a un secondo livello di spiegazione attuale del possibile perdurare del fenomeno, sembra ancora resistere, anzi rafforzarsi, il paradigma del cosiddetto 'populismo patrimoniale', coniato dal politologo francese Dominique Reynié: tenore economico e stile di vita rappresentano sempre più un tutt’uno, tanto da consentire ancora il prevalere, in determinati casi e contesti, della logica dell’'io' su quella, invece auspicabile, del 'noi'. Tanta parte delle periferie delle metropoli sono anche in questo senso assai lontane dalla 'famigerata' Ztl dove inclina ad autoconfinarsi la sinistra borghese. E lo stesso si può dire per molti piccoli centri dell’Italia di provincia, che continuano ad affidarsi a forze locali, a liste civiche, a formazioni territoriali. Non ai luogotenenti delle segreterie di partito.
Non tutti populisti, ma qui vincono ancora e sempre, nel silenzio generale, le parole d’ordine della sicurezza, del decoro, del 'padroni a casa nostra'. È una sintesi forse un po’ brutale, ma con la realtà bisogna fare i conti. Per questo, non basta evocare lo 'spirito di comunità', ma occorre costruirlo e rianimarlo dal basso, mettendoci testa e cuore, sporcandosi le mani. Da ultimo, resta la questione dei registri comunicativi e di chi li interpreta: il leader e il suo linguaggio.
La fast politics, la politica superveloce, permette sempre più facilmente di bruciare e creare nuovi capi carismatici: laddove una volta era necessario studiare e avere un cursus honorum, oggi è sufficiente costruire il personaggio giusto al momento giusto per intercettare l’onda e cavalcarla. Il popolo vuole questo e il popolo ha sempre ragione. A patto poi che l’animale politico non si trasformi in una 'bestia', pur di avere un voto in più. E magari di sfigurarsi e persino divorarsi da solo.