Opinioni

L'urgenza è sbloccare. La mobilità sociale non funziona

Francesco Riccardi sabato 16 giugno 2018

La buona notizia è che la situazione non è irreversibile. Quella cattiva, che per invertire la tendenza occorrono interventi consistenti, mirati e un cambio culturale che ancora non si vedono. Parliamo delle diseguaglianze crescenti e di quell’«ascensore sociale» che oggi sembra del tutto bloccato. Fino a far calcolare all’Ocse che, per un bambino nato in una famiglia a basso reddito, siano necessarie ben 5 generazioni prima che un suo discendente, il pro-pro-pro nipote, possa raggiungere il livello di reddito medio. Un miglioramento per cui, dice sempre l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, occorrerebbe più di un secolo.

A leggere questi numeri ci si potrebbe far prendere dallo sconforto, essere tentati di arrendersi e portati a pensare che l’Italia sia un Paese irrimediabilmente malato, da cui fuggire. In realtà, esaminando più in profondità lo stesso rapporto Ocse ci si accorge anzitutto come nella classifica della mobilità sociale ferma siamo in buona compagnia – servono 5 generazioni per cambiare anche in Stati Uniti, Regno Unito, Svizzera e Austria – mentre addirittura peggio di noi stanno Francia e Germania con 6 generazioni e quasi due secoli. Solo i Paesi scandinavi, il Belgio e la Grecia possono vantare risultati migliori con appena 2, 3 o 4 generazioni. La questione, però, non è il "mal comune mezzo gaudio", quanto che le portanti del disagio sociale sono riferibili quasi esclusivamente a due fattori – l’istruzione e la precarietà – sui quali è possibile agire.

Oltre due terzi dei bambini che nascono da genitori con bassa istruzione, infatti, restano anche loro poco istruiti, contro una media Ocse del 42% e solo il 6% dei figli di genitori con la sola istruzione dell’obbligo arriva a conseguire una laurea. Insomma, da noi continuano a laurearsi quasi esclusivamente i figli di laureati, vanno al liceo i figli di chi è andato alle superiori e restano a livello di istruzione dell’obbligo la gran parte degli altri. È ovvio che questo abbia poi un riflesso nei livelli di occupazione e di reddito, anche se l’Italia ha la peculiarità di pagare poco, specialmente all’inizio, chi possiede un’istruzione di livello terziario rispetto ai diplomati della secondaria (+40% rispetto al +60% della media Ocse). Per superare questi ostacoli l’Ocse suggerisce maggiori investimenti in istruzione per le famiglie più povere, in particolare nelle due fasce estreme: asili nido addirittura, dove si formano le prime e fondamentali abilità personali, e l’istruzione terziaria; oltre al contrasto dell’abbandono scolastico da noi particolarmente consistente. Nulla che non sapessimo, in definitiva.

La conferma però che, tanto più nell’era della conoscenza, dell’intelligenza artificiale e della robotica, senza un investimento forte sia da parte dello Stato sia delle singole famiglie nell’istruzione dei figli, il rischio è davvero quello di condannarli a "stare peggio dei genitori", come si paventa oggi. L’istruzione pubblica, gratuita fin dai primissimi anni di vita, risulta fondamentale e le famiglie devono essere messe nelle condizioni, grazie a borse di studio e soprattutto politiche fiscali adeguate e capaci di interpretare al meglio il concetto di pubblico (che non è sinonimo di statale), di promuovere l’istruzione dei giovani fino ai massimi livelli possibili.

Attenzione, però: qui non si tratta solo di mettere in campo maggiori risorse, quanto di far proprio un cambio culturale, di comprendere prima di tutto come le spese per la formazione e l’educazione siano il miglior investimento che si possa compiere per i propri figli. Appena qualche anno fa, invece, una ricerca mostrava come in Italia, a differenza di altri Paesi, i genitori fossero disposti a mettere in campo il loro Tfr, impegnare i risparmi e svenarsi pur di comprare casa ai figli, mentre erano assai restii a spendere soldi per l’istruzione terziaria e i libri...

Forse si spiega anche così l’altro triste primato conquistato ieri, quello dei Neet, dei giovani cioè che non lavorano, non studiano e non sono in formazione: siamo i primi in Europa con il 25% dei ragazzi in (più o meno forzata) inattività. È un tema, questo, che non ha conquistato l’attenzione dovuta durante la campagna elettorale, nonostante fosse l’occasione buona, ad esempio, per avviare un’approfondita verifica dei risultati in chiaroscuro di Garanzia Giovani, che ha garantito soprattutto l’effettuazione di un numero elevato di stage a buon mercato per le imprese, ma – lo dimostrano le cifre – non ha scalfito lo zoccolo duro dei Neet a cui era rivolta.

Oggi – e siamo al secondo nodo evidenziato dall’Ocse, quello della precarietà e dei bassi redditi in cui restano intrappolati i giovani e non solo – il nuovo Governo sembra deciso a intervenire per frenare l’eccessivo ricorso ai contratti a termine e la mancanza di tutele per i 'lavoretti' occasionali attraverso piattaforme e app. La direzione intrapresa dal ministro del Lavoro Luigi Di Maio è quella giusta e, se saranno confermate le indiscrezioni che parlano della reintroduzione di causali sufficientemente 'ampie' per il ricorso ai contratti a tempo, si può riuscire a evitare che la stretta strozzi le occasioni di lavoro, trovando un buon equilibrio. Tuttavia, si tratta solo di una prima 'pezza', per quanto necessaria.

Occorre invece provare a immaginare il futuro del lavoro non più rigidamente incasellato nei vecchi schemi 'dipendente' e 'autonomo' pensando anche a forme ibride, nelle quali tutele generali compensino i maggiori rischi e coprano i periodi di inattività; sia favorita la partecipazione e scoraggiata l’inattività; ma, soprattutto, in cui l’istruzione e la formazione siano un flusso continuo e ininterrotto. Perché senza, l’«ascensore sociale» non riparte e l’Italia scivola sempre più giù.