Editoriale. Sanità da rifondare: siamo all'ultima chiamata
L’appello di 14 tra i più importanti scienziati italiani a salvare il Servizio sanitario nazionale (Ssn) è l’ultima chiamata per non far collassare in modo definitivo la nostra più grande opera pubblica, che a partire dal 1978 ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo economico e sociale del Paese portando l’Italia ad avere una delle aspettative di vita alla nascita più alte al mondo.
Prima del 1978 la mancata sicurezza del parto determinava la morte di 20 bambini su 1.000 prima dei 28 giorni di vita e di 30 prima dell’anno: oggi abbiamo livelli di mortalità neonatale e infantile tra i migliori al mondo. Ma questi risultati non sono definitivi, e la mancata collocazione della salute e della sanità tra le priorità politiche e finanziarie può compromettere in modo drammatico gli indicatori del nostro Paese. In realtà questo sta già accadendo nelle regioni meridionali e nelle aree rurali, dove le condizioni assistenziali sono già compromesse, ma il problema si sta allargando rapidamente a tutto il Paese.
Non è facile descrivere sinteticamente la tragedia della involuzione del Ssn e dei danni che questo sta già apportando alla vita dei cittadini, ma alcuni numeri aiutano a rendere l’idea. Siamo ormai gli ultimi tra i Paesi del G7 e tra gli ultimi dei Paesi dell’Ocse per finanziamento sanitario pro capite: meno di 3.000 euro l’anno a fronte dei 7.300 euro della Germania e dei 6.115 della Francia (fonte Kff Health System Tracker). A fronte di investimenti così esigui le strutture e il personale sanitario sono spaventosamente inadeguati. Negli ultimi venti anni siamo passati da 770 a 516 ospedali pubblici e il numero dei posti letto ogni 1.000 abitanti è passato dai 5,8 del 1998 ai 3,1 del 2022 (la Germania ne ha 8, la Francia 5) determinando l’impossibilità di ricoverare tempestivamente una popolazione che è sempre più vecchia e malata.
Mancano 40mila medici, tra ospedalieri e medici di medicina generale, e 65mila infermieri. Ci sono 10 milioni di prestazioni urgenti in arretrato. 4 milioni di persone rinunciano a curarsi a causa delle liste di attesa e dei costi da sostenere per rivolgersi al privato e 2 milioni di persone si indebitano per curarsi. A causa delle condizioni di lavoro nei pronto soccorso, metà delle borse di specializzazione per l’emergenza-urgenza non vengono assegnate e quindi non abbiamo più medici di emergenza. Nel 2025 il finanziamento del Ssn sarà pari al 6,2% del Pil, una percentuale inferiore a quella di vent’anni fa. Ma il dato più impressionante riguarda il personale: abbiamo 97,4 operatori sanitari per 10mila abitanti (37,7 operatori in meno rispetto all’Austria, considerata best performer in Europa).
Tale valore si è ridotto nell’ultimo decennio a causa del blocco del turnover generalizzato, in modo particolare nelle Regioni in Piano di rientro, del contenimento delle assunzioni e dell’imbuto formativo causato dall’esiguo numero di borse di specializzazione per i neolaureati. A questo scenario si aggiunge l’incremento dell’età media del personale sanitario. L’Italia detiene il primato dei medici nella fascia d’età 55-64 anni, con il 53,3% dei camici bianchi over 55 a fronte di un valore Ocse del 34%. Quindi pochi operatori, anziani, e per giunta demotivati e mal pagati: sono stati gli unici in Europa a perdere potere d’acquisto negli ultimi anni. Ciò determina una massiccia migrazione professionale dal pubblico al privato, e soprattutto all’estero: oggi in Europa il 45% dei medici che operano in un Paese straniero è italiano. È un esodo di proporzioni bibliche: tra il 2000 e il 2022 hanno scelto di lavorare all’estero quasi 180mila professionisti. Per quanto attiene i medici di famiglia, tra un po’ milioni di italiani non avranno neanche quello perché, dopo aver perso 3.000 medici tra il 2013 e il 2019, la corsa ai pensionamenti ne prevede circa 35.200 entro il 2027.
Ma se un Paese occidentale moderno si sta riducendo così è esclusivamente per una scelta politica pluriennale, che pare caratterizzare, al di là delle dichiarazioni di circostanza, anche l’attuale governo, che non ha torto nel dire che non ci sono stati mai così tanti soldi per la sanità rispetto agli anni precedenti ma che pare non capire che l’abisso che ormai ci separa dagli altri Paesi civili sta diventando incolmabile. Se la salute e la sanità non diventano una priorità bipartisan le conseguenze per l’Italia saranno devastanti. Un sistema sanitario universalistico rimane la garanzia più forte per la resilienza di un Paese, ma se non si metterà presto mano, in maniera politicamente condivisa, a una riforma del Ssn arriveremo rapidamente a un sistema pubblico sempre più povero per i poveri e un sistema privato di maggiore qualità per chi ha fondi aziendali o assicurativi o ha i soldi per pagare.
È paradossale che a difendere il Ssn siano rimasti, tra le istituzioni, solo il Presidente della Repubblica che difende ostinatamente un diritto costituzionale e la Corte dei Conti, che continua da anni, con dovizia di particolari, a dire ai governi che spendiamo troppo poco in sanità. L’appello degli scienziati sottolinea che questo non è un problema che riguarda solo medici e infermieri, ma dovrebbe essere una battaglia di tutti gli italiani. Perché evitare che le famiglie si indebitino per curarsi è un principio di civiltà e un dovere per il nostro Paese e perché, come diceva Bevan, il fondatore britannico del primo Ssn al mondo, «nessun Paese può essere definito veramente civile se a una persona viene negata assistenza sanitaria perché non ha i soldi per pagarla».