Il caso. Intercettazioni e fango, giustizialismo a targhe alterne
Una celebre frase attribuita a Giovanni Giolitti recita: «Le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici». Di certo è ciò che succede, nella nostra Italia, con le garanzie, di riservatezza e processuali, che dovrebbero essere un diritto riconosciuto di tutti i cittadini. Qui da noi, infatti, troppo spesso tali garanzie si invocano per difendere i propri amici, o i propri padroni, mentre nei confronti di tutti gli altri si possono allegramente violare, utilizzando poi il risultato di quella violazione come un manganello sulle teste dei malcapitati di turno.
È un po’ quel che accade in questi giorni con una campagna stampa che, prendendo spunto da un procedimento penale in corso a Ragusa a carico dell’equipaggio della nave Mare Jonio dell’associazione di promozione sociale Mediterranea-Saving Humans, ha messo nel mirino la Conferenza episcopale italiana, alcune diocesi e anche questo giornale. Tutti soggetti che nel processo in questione non sono minimamente coinvolti, ma che hanno il “torto” di essere citati in conversazioni finite agli atti delle indagini e poi nel tritacarne mediatico.
L’opinione che abbiamo sull’utilizzo delle intercettazioni sui media, ampiamente minoritaria nel nostro ambiente, è già nota ed è la stessa da anni: per fare cronaca giudiziaria non è necessario pubblicare paginate di conversazioni tratte da telefonate o da messaggi, in particolar modo se penalmente irrilevanti e se coinvolgono persone che non sono interessate dall’inchiesta di cui si parla. Anche perché, non di rado, la semplice trascrizione non rende il contesto, il tono o il senso di certe frasi. Ma tant’è, l’usanza – chiamiamola così – prosegue e, con tutta probabilità, proseguirà. Anche se il fango, una volta sparato fuori, non si può rimettere nel ventilatore.
Ieri era in programma a Ragusa l’udienza preliminare del procedimento sulla Mare Jonio, che è poi stata rinviata a febbraio per un difetto di notifica: l’inchiesta si basa sull’ipotesi di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina», con l’aggravante dall’averne tratto profitto, per il trasbordo di 27 naufraghi da un’imbarcazione mercantile avvenuto nel settembre del 2020. Ebbene, rovistando nel materiale raccolto dagli investigatori sono emerse le conversazioni in cui indagati e non indagati parlano di presunte donazioni della Chiesa cattolica a Mediterranea, frasi poi dettagliatamente pubblicate e commentate. E portate in primo piano rispetto al fatto oggetto dell’inchiesta penale, quasi a far pensare – ma sicuramente si tratta di un pensiero malizioso – che il bersaglio da colpire fosse un altro.
Poco importa, insomma, se la Conferenza episcopale italiana non ha mai sostenuto finanziariamente Mediterranea. Poco importa, anche, se le diocesi che hanno effettuato le donazioni e che sono finite su un immaginario “banco degli imputati” lo hanno fatto nell’ambito di progetti molto più ampi che riguardano il tema delle migrazioni e che da sempre sono portati avanti nella massima trasparenza. Poco importa, ancora, se nessuno di questi soggetti – lo ripetiamo – è parte in causa nella citata vicenda giudiziaria. E pochissimo o nulla importa, a quanto pare, se quel materiale istruttorio non era pubblicabile. Di certo non è caduto dal cielo, con tanti saluti alle pretese “leggi bavaglio” denunciate da più parti. Niente di nuovo, purtroppo, nel Paese del garantismo interessato e del giustizialismo a targhe alterne.