Opinioni

Editoriale. L'Europa disunita e la guerra a Gaza. Come uscire dal labirinto

Andrea Lavazza sabato 25 maggio 2024

Forse mai come nella guerra in corso a Gaza si sono mescolati aspetti bellici, politici, umanitari e giuridici. Secondo alcune stime, nella Striscia si sta consumando la peggiore crisi del secolo per numero di vittime civili per ogni giorno di combattimenti e probabilmente per morti sulla popolazione complessiva (36mila, circa l’1,7%; equivalenti a un milione di persone se parametrati sull’Italia). Questo bilancio è l’effetto collaterale dell’offensiva israeliana in risposta al peggior pogrom anti-ebraico dalla Seconda guerra mondiale, lanciato da Hamas lo scorso7 ottobre. Se, come hanno certificato di recente gli analisti dell’intelligence americana, la caccia ai miliziani fondamentalisti non ha portato ai risultati sperati (forse poco più di un terzo è stato stanato dalla rete dei tunnel sotterranei), la strategia di terra bruciata condotta dall’esercito di Tel Aviv ha mancato spesso di rispettare le norme dello jus in bello.

Alla luce di questa situazione, la Corte internazionale di giustizia (Cig) – su iniziativa del Sudafrica – ha ingiunto ieri a Israele di fermare immediatamente l’offensiva a Rafah per le condizioni umanitarie già disastrose in cui versano i residenti e gli sfollati nonché il pericolo concretissimo di un ulteriore peggioramento. Allo Stato ebraico è stato inoltre ordinato di riaprire il valico con l’Egitto per l’ingresso di aiuti, mentre è stata ribadita l’intimazione al rilascio di tutti gli ostaggi ancora in mano ai terroristi. I giudici Onu dell’Aja stanno nel frattempo valutando la denuncia per genocidio che pende sui vertici israeliani. Ed è di pochi giorni fa la richiesta del procuratore della Corte penale internazionale, organismo distinto e non collocato nel perimetro delle Nazioni Unite, di emettere un mandato di arresto per crimini di guerra a carico del premier Netanyahu e dei tre leader di Hamas: Sinwar, Deif e Hanyeh. Contemporaneamente, Spagna, Irlanda e Norvegia hanno deciso di riconoscere lo Stato palestinese, spaccando ulteriormente il fronte europeo sullo scacchiere mediorientale e suscitando l’ira di Tel Aviv.

Le università occidentali, infine, sono in subbuglio con occupazioni pro-Palestina e crescono le minacce e gli attacchi antisemiti (non ultimo per rilevanza in Italia il sermone incendiario – non autorizzato – di un rappresentante islamico nell’ateneo di Torino). Di fronte a questo scenario tragico e intricato, non solo è difficile scorgere una via di uscita, ma può sorgere il dubbio che le mosse compiute sui diversi piani finiscano per complicare il quadro invece di alleggerirlo. In particolare, i procedimenti giudiziari internazionali e le decisioni politiche sembrano stringere Israele in un crescente isolamento che vede come reazione l’inasprimento dell’azione militare e la chiusura al dialogo. Quanto potranno resistere nel bunker della linea dura Netanyahu e i suoi alleati di governo, sordi ai richiami dell’amico americano e ora anche del massimo livello giurisdizionale globale (sprezzantemente bollato come “antisemita” dal ministro Ben-Gvir)?

La Cig non può mettere in campo alcuna forma di implementazione delle proprie decisioni, così come la Cpi non potrà mandare propri agenti ad ammanettare i ricercati. L’inadempienza di Israele e il diverso sostegno degli altri Paesi alle ordinanze delle Corti metteranno così sotto stress il sistema legale che dovrebbe farci progredire nel rispetto del diritto umanitario. L’obiettivo della pace e della sicurezza dovrebbe, tuttavia, rimanere la guida nel labirinto di un conflitto finora senza sbocchi, anche per la mancanza di un piano di lungo termine per la Striscia di Gaza. È ciò che Benny Gantz sul fronte interno imputa al suo premier, cui ha rivolto un ultimatum per l’8 giugno, anche se ieri proprio l’ex generale e aspirante leader del Paese è stato tra i primi a respingere al mittente il pronunciamento della Cig e annunciare che le operazioni a Rafah non cesseranno.