Lutto. Quell’«Ave Maria» di un ateo mai pentito e la domanda, come bambina, sul “dopo”
Maurizio Costanzo è morto. Consolanti sono state, nei suoi confronti, le parole di affetto e di riconoscenza di tanti uomini e donne della politica, del giornalismo, della televisione. L’amicizia tra gli esseri umani rende la vita più leggera e interessante. Passati i giorni del lutto, occorre riprendere il cammino. Si va avanti, ma, per chi soffre, niente è come prima. Nella fossa, insieme alla persona cara, scende anche un pezzetto di cuore di chi l’ama. La morte rimane lo spauracchio che, imperterrito, ci attende alla fine della strada, breve o lunga che sia. A nessuno è dato dire con certezza che cosa ci sia dietro il muro che troviamo al termine della corsa. La fede ci viene in aiuto, ma non pochi le sono ostili perché – pensano - nemica della ragione. Per costoro sarebbe solo una sorta di panacea consolatoria, buona per gli ingenui e i paurosi, ma del tutto incapace di competere con i robusti spiriti pensanti.
Tra le tante dichiarazioni rese dagli amici e dai colleghi del famoso conduttore, una in particolare mi ha colpito. Poche parole ma in grado di aprire orizzonti degni di essere esplorati. Costanzo si diceva ateo, uno dei suoi migliori amici, invece, l’avvocato Giorgio Assumma, è cattolico. Un ateo e un credente, ognuno ripettoso della “fede” dell’altro. Se, e quante volte, negli anni, avessero affrontato il problema di Dio, il dottor Assumma non ce l’ ha rivelato. Chissà, forse verremo a saperlo in un prossimo futuro. Ciò che è certo, invece – e che riempie di gioia, ma non di meraviglia, i credenti – è quanto ha dichiarato all’indomani della sua morte: «Mi ha chiesto di recitare insieme un’Ave Maria. Poi, se “dopo” avrà modo di incontrare suo padre». Sul finire della vita, dunque, Costanzo chiede all’amico di sempre di essere aiutato a pregare. Qualche esteta della coerenza – credente o non credente che sia – potrebbe dispiacersi di questa strana richiesta. Chi ha sperimentato la grazia della fede e del perdono, invece, si guarda bene dal cadere in un facile e inutile giudizio – o pregiudizio - temerario.
Nel Mistero si entra a tentoni, lentamente, a piedi scalzi e mani vuote. In silenzio e con immenso rispetto. Curzio Malaparte, ateo a sua volta, ebbe modo di conoscere il gesuita padre Virginio Rotondi in ospedale dove era stato ricoverato al ritorno da un viaggio in Cina nel 1957. I due divennero sinceramente amici. Malaparte, gravemente malato, chiese e ottenne di essere battezzato e di ricevere la Comunione. Si spense poche settimane dopo. La cosa dispiacque a qualche sua vecchia conoscenza che si ostinò – arbitrariamente – a non credere alla genuinità di quella conversione. Non mi pare che in questo modo si renda a questi fratelli in umanità il dovuto rispetto che meriterebbero. A me sembra di vederlo, Costanzo, mentre mormora l’antico saluto dell’angelo alla mamma di Gesù, ripetuto, poi, miliardi di volte in tutte le lingue in questi due millenni. Mi commuove.
Chi è quest’uomo, allora? Uno che, giunto alla fine della vita, si aggrappa alla fede per far fronte al glaciale ateismo che poco o nulla ha da offrirgli in quel drammatico momento? O un uomo intellettualmente onesto e libero che, abbandonate le antiche e ferree certezze, accetta la sfida e scomette che Dio c’è? Non c’è dato sapere e, per la verità, nemmeno ci interessa. Nessuna tentazione apologetica ci spinge a scrivere questi pensieri ma solo il desiderio di voler dare un saluto fraterno a Maurizio Costanzo. Perché nulla deve andare perduto.
Recitando sul letto di morte questa sua unica preghiera – ma davvero non ce ne saranno state altre? – ci invita ad aprire una crepa per gettare un’occhiata al di là del muro. Martin Lutero, prima di morire, scarabocchiò su un foglio: «Siamo mendicanti, questo è vero». E lo siamo tutti, atei, agnostici, credenti. Tutti, nessuno escluso. Mendicanti, poveri, pellegrini, ma immensamente amati da Dio. Crederlo è una grazia. Sempre, in qualsiasi momento si arrivi a prenderne coscienza. Riposa in pace, Maurizio.