Opinioni

L'errore e l'orrore. Quei morti senza nome né volto a Rafah

Lucia Capuzzi martedì 28 maggio 2024
«Un tragico errore». Così il premier Benjamin Netanyahu ha definito la strage di profughi a Rafah: almeno 45 vittime, oltre la metà donne e bambini. Morti senza nome né volto. Non solo perché i loro corpi sono stati divorati dalle fiamme: 153 uccisi, in media, al giorno sono troppi per essere ricordati. Anche nel clima di assuefazione globale all’orrore, però, il massacro di Rafah ha conquistato, per un momento, la ribalta mediatica. Una dopo l’altra sono arrivate le condanne della comunità internazionale. Il governo israeliano ha espresso il proprio rammarico per il “tragico errore”. Espressione quest’ultima particolarmente azzeccata. La parola “errore” porta in sé il senso dell’errare, ma anche l’amara constatazione dell’aver deviato dalla retta via. L’errore - secondo l’origine etimologica - è una deviazione dal giusto.

Ma qual è il giusto da cui si è deviato? Questo è l’interrogativo cruciale. Ha deviato chi ha dato l’ordine di colpire due terroristi nascosti in una tendopoli densamente popolata, definita oltretutto dallo stesso esercito “zona sicura”? Ha deviato l’aviatore che ha premuto il pulsante senza obiettare? Ha deviato il comando militare non prevedendo un’operazione per spegnere sul nascere il prevedibile incendio? Forse hanno deviato tutti e tre. O, forse, lo stress, le condizioni ambientali difficilissime, la stanchezza per il protrarsi del conflitto, rendono sempre più difficile minimizzare i rischi. I “tragici errori” fanno parte del panorama della routine bellica. “Ѐ la guerra”, del resto, recita il detto popolare rivelando una verità profonda. Le conflagrazioni belliche - abbellimenti retorici a parte - producono morti, mutilati, profughi, orfani, stupri…

È la guerra, dunque, il primo, tragico errore. Non si tratta di negare le responsabilità individuali. Queste restano e sono oggetto di leggi nazionali internazionali. Sarebbe miope, però, guardare solo gli effetti senza mettere in luce le cause strutturali da cui derivano.

A deviare dal giusto sono gli Stati quando considerano la guerra un modo percorribile e sensato per affrontare le controversie nel Ventunesimo secolo. Sono gli analisti quando ripetono che è “inevitabile”, lo stato naturale dell’umanità, confondendo tra conflitto e sua risoluzione per via cruenta. Sono gli intellettuali quando affermano che la guerra è la regola della storia, la pace l’eccezione, quasi fossero categorie ontologiche e non fenomeni socialmente costruiti.

Le conflagrazioni belliche sono il risultato di una serie di scelte politiche, economiche, culturali adottate dai governi e portate avanti nel tempo, al di là dell’accadimento improvviso che ne determina l’esplosione. Questo non significa sminuire la portata del singolo casus belli. Bensì comprendere che cosa vi soggiace. A proposito di Gaza, il giornalista israeliano Rogel Alpher ha parlato di “sindrome di Versailles” da cui sarebbe affetto il governo Netanyahu. Come i tedeschi al termine della Prima guerra mondiale, l’attuale esecutivo rifiuta di vedere qualunque responsabilità delle politiche adottate da Tel Aviv nell’interminabile conflitto mediorientale. Affermarlo non vuol dire negare il legittimo diritto all’esistenza dello Stato di Israele ma, a partire da questo, trovare un modo per metterlo in dialogo con l’altrettanto legittima prerogativa di un altro popolo.

Ri-storicizzare o de-ontologizzare la guerra, toglierle l’aurea di presunta inevitabilità che tanti si affannano ad attribuirle, smascherarne la costruzione silenziosa, consente anche comprendere cosa sia davvero la pace. Non un’aspirazione vaga o ingenua ma un orizzonte a cui tendere, con decisioni concrete. Una parte importante della società israeliana, e di quella palestinese, lo hanno imparato con l’esperienza.

Non a caso il malessere, congelato dallo choc della brutalità del 7 ottobre, comincia a emergere in modo palese. Oltre 160 organizzazioni per la pace dei due popoli, riunite nell’Alleanza per il Medio Oriente, si sono offerti come partner di fronte alla comunità internazionale e, in particolare, al G7 per esplorare vie alternative alla carneficina in atto. Il loro appello è stato firmato da papa Francesco a Verona. Ai piccoli, riuniti in Vaticano da tutto il mondo proprio nel giorno della strage a Rafah, il Pontefice ha affidato la missione di farsi costruttori di pace. Un passo alla volta, sulla giusta via, senza deviare.