Addio a Morricone. L'emozionante sinfonia della nostra vita vera
L’appellativo di 'maestro' lo aveva sempre indossato con un tocco di ironia, ribadito dal necrologio in cui annuncia personalmente di essere morto e di volere funerali privati per non dare troppo disturbo. Ma questo non significa che Ennio Morricone dubitasse del valore del proprio lavoro. Al contrario, era perfettamente consapevole del fatto che le sue melodie avessero cambiato la storia, e non soltanto la storia del cinema. Per quanto sì, è vero, era sul grande schermo che lo stile di Morricone si dispiegava in tutta la sua efficacia.
A darci la controprova era stato una decina di anni fa Antonio Monda, autore di Lontano dai sogni, un importante libro-intervista nel quale l’elogio dell’arte di Morricone contemplava un’ipotesi che non ha bisogno di essere commentata. Provate a immaginarle senza la sua colonna sonora, certe sequenze di Sergio Leone o di Giuseppe Tornatore, suggeriva. Vi accorgerete che manca qualcosa di indispensabile: un’eco che rimane sospesa, una dissonanza appena accennata, un motivo che riemerge da lontano. Da qui veniva la leggerezza del rapporto che Morricone intratteneva con la sua straordinaria carriera. Centinaia di partiture, arrangiamenti e concerti a non finire, premi Oscar, una popolarità che era diventata molto presto internazionale: questa era la musica della sua vita. La colonna sonora, esattamente, che restituisce profondità a ciò che accade, ma con discrezione, restando sempre a un’incollatura dal silenzio.
Di tutte le forme di espressione artistica, del resto, la musica è la più prossima alla dimensione dell’ineffabile. Perché ci commuove così tanto il tema di Mission? E di che cosa ci fa venire nostalgia il fischio di Per un pugno di dollari? Non sarà per caso la 'nostalgia del totalmente altro' teorizzata da Max Horkeimer negli stessi anni in cui Morricone si imponeva come compositore? Non sono le parole che avrebbe usato lui, d’accordo, ma il senso è quello. La potenza della musica consiste nella sua capacità di risvegliare l’attesa di assoluto che, con riserbo pari all’intensità, Morricone ha coltivato per tutta la sua esistenza. Non ha mai fatto mistero della propria fede ed è «con il conforto della fede» che si è spento, secondo la pudica testimonianza del comunicato ufficiale. Nel necrologio in prima persona, invece, Morricone dà voce alla sofferenza di doversi separare dalla moglie Maria Travia. Un matrimonio lunghissimo e felice, il loro, celebrato nel 1956 con la sposa appena ripresasi da un gravissimo incidente che aveva rischiato di lasciarla paralizzata.
«Aveva tutta la schiena ingessata, fino al collo – ricordava Morricone –. Non si sapeva come ne sarebbe uscita e fu proprio allora che decisi: ci saremmo sposati a ogni costo, anche se non si fosse più alzata da quel letto». Lui stesso lo ammetteva con divertita umiltà: se non si era mai montato la testa, il merito era tutto della sua Maria, che ogni volta lo riportava alla realtà concitata di una famiglia con quattro figli (i periodi più difficili, confessava Morricone, non coincidevano con le lunghe trasferte a Hollywood, ma con le sessioni di composizione in casa, lui chiuso in una stanza e i bambini costretti a non fare troppo rumore).
Forse il segreto della sua musica stava in questo sottofondo di quotidianità, il trambusto da cui ciascuno di noi è inseguito e che, di tanto in tanto, si apre in un’armonia inattesa. Amava le cose semplici, il Maestro. Per le nozze d’oro, per esempio, non ci furono festeggiamenti chiassosi. «Siamo andati in chiesa tutti e sei. Noi due e i nostri figli. È stata una bellezza », diceva. Non si faceva fatica a credergli.