Analisi. Armi, droga, petrolio: tutti i traffici dell’Iran che destabilizzano il mondo
Ormai è chiaro: la guerriglia degli Houthi non ha avuto solo una dimensione marittima, ma ha investito anche il dominio aereo. Dall’inizio della crisi nel mar Rosso, i guerriglieri yemeniti rivendicano di aver abbattuto 5 droni Reaper americani, costosi e preziosi per monitorare quanto accade in Yemen. In almeno un caso, i guerriglieri hanno usato un missile contraereo recentissimo, contrabbandato dall’Iran non solo qui ma anche in Libano, girato a un altro vassallo che tiene sulla corda Israele, a cui ha già tirato giù più di un drone. Nemesi della storia, quel missile integrerebbe componenti americane, compresi un’antenna di comunicazione ad alta frequenza e un sistema di navigazione inerziale, importati clandestinamente in Persia o comprati sul mercato libero. Si tratta di una storia che si ripete, dall’Ucraina al Medio Oriente, con le armi iraniane usate pure dai russi, ispezionate dalle intelligence locali e scoperte imbottite di tecnologie occidentali. Come si spiega?
Confini porosi e spazi fluidi, prestanome e società di copertura, munite di documenti di viaggio contraffatti e agevolate da buoni intermediari: sono questi gli ingredienti che alimentano i traffici clandestini di armi e droghe iraniane. A tirare le fila sono le unità segrete dei pasdaran di Teheran e della forza Qods, braccio occulto dei primi per le operazioni all’estero. La rete si dipana in una miriade di rotte, terrestri e navali, seguendo tre direttrici principali: Oman, Somalia, Iraq, Siria e Giordania. Racconta l’intelligence militare statunitense che, fra il 2015 e il 2023, gli occidentali hanno intercettato in mare diciotto spedizioni clandestine dirette in Yemen: armi pregiate, fra componenti per missili, droni, sistemi controcarro e fucili. Due sequestri sono avvenuti anche nel 2024; ma l’11 gennaio scorso, un’imbarcazione sospetta è stata bloccata poco al largo delle coste somale, in una rotta tortuosa e indiretta verso la meta yemenita finale. Un modo per confondere le acque perché, arrivate nella regione, le merci sono spesso trasbordate su piccoli pescherecci, difficili da smascherare.
Gli approdi in Yemen passano per le isole Kamaran, presso Ibn Abbas, nell’area di Khor al-Nakila e per quella di Al-Faza. Osserva il “Combating Terrorism Center” di West Point che l’ultimo approdo sorge su una fascia costiera di 15 km, talvolta interdetta ai civili e ai pescatori, in concomitanza con l’arrivo dei battelli armieri, che salpano pure dalle navi madre iraniane. Non si sa esattamente quanti ne siano arrivati dal 2014 in avanti, ma nel periodo fra il 7 ottobre e l’11 gennaio scorsi, ci sarebbero state almeno quattro visite e, il 13 dicembre, diversi barchini iraniani sarebbero approdati con materiali e uomini. A marzo e aprile, la task force navale internazionale che presidia le acque yemenite e del Golfo arabico non ha intercettato nessun carico, ma sembrerebbe che un battello sia riuscito ad eludere i controlli.
Per una fonte militare del Washington Post, il mare è un dedalo, tuttora sfuggente, perché droni e navi militari non bastano a sorvegliare ogni minimo movimento. Scrive l’Istituto africano per gli studi sulla sicurezza che le armi iraniane sarebbero riesportate dallo Yemen anche in Somalia, dove alimenterebbero il terrorismo del Daesh e di al-Shabaab, finendo nelle ramificazioni jihadiste di Kenya, Etiopia e Mozambico. Non pago, l’Iran punta oggi sulla Giudea e la Samaria: le sue armi leggere vi fluiscono a bordo di droni, oppure viaggiano su veicoli civili, attraversando le aree di contrabbando che, da Deraa e Suwayda, sboccano in Giordania, attraverso una frontiera non presidiata ermeticamente. Washington ha finanziato Amman con più di un miliardo di dollari per rafforzare i valichi, perché la Giordania è un crocevia pure del captagon, la “droga dei combattenti”, prodotto in Siria e diretto sui mercati mondiali. Amman ha chiesto invano la collaborazione del presidente siriano Bashar al-Assad ma, vista la sordità della controparte, è stata costretta a bombardare almeno due volte il sud siriano. Come lei, anche Gerusalemme sta facendo gli straordinari, pur per altri motivi, per interdire i flussi di armi fra la Siria e il Libano. Ha colpito più volte siti ubicati nella provincia di Deir Ezzor e nel nord di Damasco, in una delle rotte principali. E il 1° aprile scorso, gli F-35 con la stella di David hanno eliminato direttamente il generale della Quds Force Mohammed Zahedi che, con l’ormai defunto omologo Moussavi, era l’artefice di molti traffici nel sud della Siria, piattaforma girevole delle unità 4000 e 18840 dei pasdaran e della 112 di Hezbollah, un’unità coinvolta pure nel riciclaggio di denaro in Africa e in Sudamerica. Non è tutto: secondo il quotidiano Telegraph, l’unità 190 degli al Qods avrebbe organizzato in passato un Latakia Express, un sistema di triangolazioni tra il porto di Bandar Abbas, tre scali europei, le coste nordafricane, il porto siriano di Latakia e il Libano meridionale, dove il testimone passerebbe in genere all’unità 4.400 di Hezbollah e al suo capo Hajj Fadi.
Per gli israeliani, Latakia sarebbe più difficile da bombardare perché ospita anche una base russa e il mare disegna una trama complessa, più sfuggente all’attentissima intelligence israeliana e ai bombardamenti che martellano i corridoi terrestri fra Siria e Libano dove, le armi di calibro piccolo e medio, prodotte da compagnie iraniane come Armament Industries Group, sono veicolate via terra da intermediari specializzati in trasporti illegali. Teheran sta muovendo tutte le pedine della sua scacchiera per alimentare chi combatte per lei, senza esporsi eccessivamente in una guerra che preferisce combattere soprattutto dietro le quinte, per evitare uno scontro tanto frontale quanto fatale con Washington, eccezion fatta per la rappresaglia missilistica dell’aprile scorso, diretta inusualmente contro il territorio israeliano.
Alcuni dei circuiti illegali dei pasdaran sfuggono, altri no. A febbraio, il Tesoro statunitense ha sanzionato, insieme ad altre entità e personaggi, una sussidiaria della Banca centrale iraniana, coinvolta nel contrabbando di tecnologie americane di punta, probabilmente non legate all’affare dei missili, ma la Banca iraniana era già sotto embargo per i finanziamenti elargiti alla Quds Force. Nella rete mondiale, vi sono merci che giungono a destinazione anche per via aerea, su cargo di compagnie colluse, per esempio lungo la rotta Teheran-Caracas. La compagnia venezuelana Conviasa sarebbe legata alla Mahan Air, agenzia fantoccio dei pasdaran, e sarebbe stata coinvolta in passato nei traffici di armi in Medioriente. Con l’aiuto persiano, Conviasa, sotto sanzioni Usa, pur alleggerite nel 2023, ha creato fa la sussidiaria Entrasur, che ha preso in leasing un Boeing 747-300B3 di Mahan e che, fino a non molto tempo fa, volava dalla Base Aérea El Libertador verso Teheran, Mosca e Belgrado.
icordiamo che El Libertador ospita una fabbrica di Eansa, una joint venture fra la Conviasa stessa e l’iraniana Cavim, che si occupa di manutenere i droni venezuelani, tutti di fattura iraniana, ma fabbricati in loco su licenza e poi ribattezzati con altri nomi. Petrolio a parte, non di sole armi vive il commercio iraniano, più o meno lecito, perché le prime battono spesso le stesse rotte della droga. Durante la guerra civile yemenita, una passava per il valico di Shehen, al confine poco sorvegliato fra Oman e Yemen, e sboccava nella provincia di al-Mahra; un’altra si serviva dei piccoli porti di Mar Rosso, Mar Arabico e Golfo di Aden.
L’Iran sguazza nell’illegalità: l’economia sommersa vale il 35-44% della ricchezza nazionale e produce fra i 160 e i 200 miliardi di dollari l’anno. I soli circuiti illegali dei pasdaran varrebbero 12 miliardi di dollari. Grazie ai proventi della droga e del petrolio, Teheran fiorisce nelle armi e, pur affossando i suoi abitanti, finanzia ed equipaggia gli alleati “nascosti”. Fra 700 milioni e 1 miliardo di dollari l’anno vanno al solo Hezbollah; e le vendite di armi in Africa e in Venezuela non coprirebbero le spese perché, pur aumentate, nell’ultimo biennio hanno fatturato poco più di 300 milioni di dollari. Come il petrolio, la droga è redditizia: secondo il quotidiano Times, i pasdaran avrebbero il monopolio degli stupefacenti in casa e legami con le reti criminali mondiali nel Sud-Est asiatico, in Cina, Giappone, America Latina, Nord America, Africa ed Europa. Le agenzie di intelligence Usa hanno individuato non meno di due alti ufficiali paramilitari iraniani coinvolti nel traffico di stupefacenti. Un affare inquietante.