Lavoro. Dobbiamo ricordarci che dietro un sottocosto spesso c'è un sottosalario
Settantasette lavoratori sono stati licenziati qualche giorno fa con una Pec (un messaggio di posta elettronica certificata) a Ferrara da un’azienda di proprietà americana che ha deciso di trasferire la produzione in India e in Cina. Storie simili a questa si ripetono non di rado e ricordano quella più nota di Gkn, l’azienda di Campi Bisenzio dove la proprietà chiuse, nonostante l’attività fosse in profitto, per riaprire in Slovenia.
Si tratta di esempi, assolutamente scontati e prevedibili, della legge di gravità dei salari e della competizione globale in cui le aziende alla ricerca del massimo profitto per i loro azionisti e proprietari usano l’opzione della scelta di localizzazione per minimizzare i costi. Poiché siamo un Paese ricco, e ce ne sono moltissimi altri dietro di noi dove costo della vita e del lavoro sono più bassi, non c’è che l’imbarazzo della scelta. E quei Paesi magari sono anche più abili di noi a offrire condizioni di contorno (costo dell’energia, tasse e regolamentazione, logistica) più favorevoli delle nostre all’insediamento di imprese estere.
Faremmo male a lasciarci andare a facile indignazione, perché la lotta di classe è dentro di noi, che in questa società siamo lavoratori ma anche consumatori e azionisti. Ci entusiasmiamo quando un supermercato ci propone un “sottocosto” e lo intasiamo nella giornata degli sconti e del risparmio senza renderci conto che dietro un sottocosto c’è un “sottosalario” (come i 5 euro all’ora – altra notizia recente – delle operaie a cui è stato subappaltato il confezionamento di ovetti di cioccolato). E che chi percepisce il “sottosalario” non ha spesso neanche abbastanza soldi per potersi permettere i prodotti al sottocosto.
Questa “legge di gravità” spiega anche alcune caratteristiche del nostro mercato del lavoro, come quella dei “lavoratori poveri”, ovvero circa 3 milioni di persone (il 12% della forza lavoro) che guadagnano meno di 950 euro al mese. È evidente che salari minimi legali più elevati non sono la soluzione di questo specifico problema, perché spingerebbero fondi di proprietà indefinita che gestiscono imprese in Italia a chiudere e delocalizzare ancora più aziende.
Ci sono però molte altre cose che possiamo e dobbiamo fare. Prima di tutto proteggere i lavoratori quando il mantenimento di quello specifico posto di lavoro diventa una battaglia persa. Con gli ammortizzatori sociali ma soprattutto con formazione, riqualificazione professionale per ridurre il mismatch (la presenza contemporanea di posti di lavoro vacanti e disoccupati) che in Italia sfiora quota 300mila. Piattaforme come quella della Anpal consentono oggi di verificare per ogni tipo di professione e di zona del Paese la presenza di posti di lavoro vacanti e di stimare i tempi nei quali è possibile trovare un nuovo lavoro.
Per sottrarsi alla legge di gravità della concorrenza al ribasso è necessario poi avere dei vantaggi competitivi, ovvero saper fare qualcosa che gli altri sanno fare meno o non sanno fare. Le politiche industriali devono favorire questo processo con opportuni incentivi. Il tema dell’energia non è affatto scollegato: il rapporto Draghi ricorda che il costo dell’energia più elevato per la dipendenza dalle fossili nel nostro Paese è una zavorra pesante sulla competitività delle imprese.
Ci sono poi i contratti di lavoro, occasione straordinaria d’innovazione dove i princìpi di intelligenza relazionale sostenuti dall’Economia civile possono essere applicati in un quadro di cooperazione tra datori di lavoro e sindacati. Esempio attuale molto interessante e non di poco conto è quello del contratto dei metalmeccanici, attualmente in discussione, che riguarda 1,6 milioni di lavoratori e 30mila aziende (l’8% del Pil italiano). È normale che in una fase iniziale della trattativa si sia in condizioni di “rottura” tra le parti. Le questioni del contendere sono non solo il livello dei salari ma anche il welfare aziendale e la flessibilità e il lavoro agile.
Il valore aggiunto dei contratti di lavoro è infatti quello di offrire una varietà di strumenti e non solo di fissare il livello dei salari che, come abbiamo visto, finisce sotto lo scacco della legge di gravità della concorrenza globale e delle delocalizzazioni (Gkn è un’azienda metalmeccanica). Molti più gradi di libertà nella definizione di regole a favore della dignità del lavoro esistono sugli altri fronti della flessibilità, dello smart working e del welfare aziendale, inclusa la possibilità di forme assicurative sanitarie molto importanti oggi come quelle sulla non autosufficienza, in drammatica espansione nel Paese.
Qualcosa – non ci stanchiamo di dirlo – può e deve farla anche il “voto col portafoglio” di amministrazioni pubbliche (con le regole degli appalti) e dei cittadini (con il consumo responsabile di prodotti ad alta dignità di lavoro). Sta quindi anche a noi, se vogliamo rimontare la rabbia sociale e lo scontento crescenti, trovare le vie tra quelle indicate per rendere l’epoca che stiamo vivendo degna e se possibile promettente non solo per i consumatori e gli azionisti ma anche per i lavoratori con meno risorse e qualifiche.