Cristiani perseguitati. La repressione silenziosa in India e il posto solo per gli indù
Cristiani indiani a Chennai pregano durante la Messa delle Palme 2023
L’India si avvia alla campagna elettorale in vista del voto che in varie riprese tra aprile e maggio consentirà di rinnovare i 543 seggi della Camera bassa del Parlamento (Lok Sabha) e le assemblee dei vari Stati e Territori in cui è suddiviso il Paese, creati considerando le loro caratteristiche etnico-linguistiche in una Repubblica nata come Stato federale con ampie autonomie regionali. Il fattore religioso, la presenza in diversa misura di fedi differenti nelle nuove entità amministrative, non è stato però considerato dai fondatori, forse nella coscienza dei problemi che un irrigidimento avrebbe potuto creare in un contesto come quello indiano dove, dopo l’indipendenza dai britannici, si era avuta la nascita traumatica di uno Stato separato per i musulmani, il Pakistan. Nei fatti, secondo le aree e i tempi, l’appartenenza religiosa è diventato elemento di rilievo, spesso discriminante o problematico, nell’India contemporanea.
La laicità della Costituzione e la pratica di governo che hanno improntato decenni di potere quasi indiscusso del Partito del Congresso hanno permesso di fatto una convivenza tra la maggioranza indù e le minoranze e di queste ultime tra di loro. Almeno fino a quando situazioni estreme, come quella del Kashmir a maggioranza islamica ma integrato forzatamente nello Stato indiano, oppure l’indipendentismo sikh sfociato nell’assassinio di Indira Gandhi nel 1984, non hanno drammaticamente evidenziato come l’elemento religioso potesse essere ancora fortemente identitario, in mancanza di una piena implementazione degli ideali di unitarietà, uguaglianza e progresso condivisi. Anche, però, in presenza di spregiudicati giochi politici e di un ruolo rilevante di interessi particolari tollerati se non sostenuti da poteri dello Stato. Come nel caso della persecuzione anticristiana dell’agosto 2008 o di azioni che a più riprese hanno preso a bersaglio le comunità musulmane.
Mentre il nazionalismo settario va diventando sempre più aggressivo, le minoranza religiose sono sottoposte in modo crescente a intimidazione e violenza. L’ultimo decennio ha visto un incremento della frequenza di atti discriminatori contro le minoranze. Ma se le violenze anti-musulmane sono note e molto raccontate, quelle contro i cristiani - 30 milioni, poco più del 2% della popolazione totale - lo sono molto meno. E ciò accade per diverse ragioni. Una è che si tratta di azioni sparse e di bassa intensità che spesso non arrivano nei titoli dei notiziari televisivi, sul Web o sui giornali. Questo è emerso grazie a numerose inchieste dei gruppi per i diritti umani che monitorano le violenze contro la Chiesa e che confermano il persistere di casi di discriminazione anti-cristiana dovuti ai gruppi fautori dell’hindutva in tutti gli Stati e Territori dell’India che perlopiù non sono considerati dai media o anche nei circoli più attenti ai diritti umani.
La situazione non poteva che peggiorare da quando, con le elezioni della primavera 2014 i nazionalisti filo-induisti del Bharatiya Janata Party (Bjp) sono tornati al potere dopo una storia di governo dell’India indipendente controllata quasi esclusivamente dal Partito del Congresso, laicista e fortemente connesso con le sorti della dinastia Nehru-Gandhi. L’elenco degli attacchi variamente motivati a luoghi di culto cristiani mostra che negli ultimi anni gli episodi intolleranza si sono verificati in maggioranza nell’Uttar Pradesh, il più popoloso Stato indiano, governato dal Bjp. Altri casi hanno avuto luogo in Chattisgarh, Haryana, Madhya Pradesh, Kerala, quindi in aree del Paese diverse per lingue, etnie, condizioni socio-economiche e composizione religiosa.
I rapporti sulle violenze e sulle discriminazione delle minoranze mostrano chiaramente che in molti episodi la polizia non tiene conto di avvertimenti o informazioni sui rischi di aggressioni o attacchi organizzati ma anche che arriva spesso troppo tardi. In questa inazione un ruolo sembra giocare la narrazione degli estremisti indù diffusa ovunque attraverso i loro organi di propaganda che sarebbe in atto una crescente tendenza delle minoranze a imporsi sulla maggioranza attraverso vari metodi. Tra questi, per i musulmani il matrimonio con donne indù (dopo la conversione), una strategia che mirerebbe a superare numericamente i rivali indù, mentre per i cristiani l’accusa più frequente e quella di convertire attraverso coercizione, frode o incentivi. Una situazione che ha portato nel 2015 l’ex capo della polizia nazionale, il cattolico praticante Julio Ribeiro, universalmente apprezzato per il suo impegno per la sicurezza e la giustizia, a dichiararedi sentirsi, «come cristiano, improvvisamente straniero nel mio Paese». Da allora le cose sono peggiorate rapidamente, imponendo una forte pressione sulla comunità.
«Per quanto mi riguarda non è necessario convertire altri. Anche la Chiesa cattolica alla quale appartengo accetta che esseri umani buoni, indipendentemente dal credo religioso, possano ottenere la salvezza», ha ricordato in questa come in altre occasioni, il “top cop” indiano, che fu come altri choccato dall’ondata persecutoria iniziata il 23 agosto 2008 dal distretto di Kandhamal in Orissa contro tribali e aborigeni di fede cristiana e che da lì si è estesa senza più esaurirsi. «Personalmente non credo che molti indù siano stati convertiti in tempi recenti in Karnataka o anche in Orissa. Nel Kerala i cristiani sono presenti da duemila anni, ma anche se ci fossero state delle conversioni (in modo contrario alle legge) certamente nessuno può permettersi di farsi giustizia da solo; essere accusatore, giudice e boia raccolti in un solo individuo».
E ciò ancor più per accuse ingiuste, non connesse con la realtà, e che sono frutto di manipolazione politica, di propaganda che met te in ombra le incongruità tra proclami e azioni di chi le promuove. Basti considerare che L. K. Advani, oggi 96enne, co-fondatore del Bjp e sua guida nel periodo immediatamente precedente la scalata di Narendra Modi alla leadership del partito, della “galassia indù” e del governo, ha studiato al St. Patrick, istituto superiore gestito dai gesuiti a Karachi, oggi Pakistan. Una istituzione educativa da cui non sono mai emerse voci di conversioni forzate, come non se ne registrano – oltre ad accuse finora ritenute infondate anche dai giudici - in tutte le scuole di ogni ordine e grado affidate alla Chiesa cattolica in India, che accolgono una stragrande maggioranza di non battezzati.
Al contrario, parlando di coerenza ma anche di memoria selettiva, oggi molti sembrano ignorare che Modi, per un decennio alla guida dello Stato nord-occidentale del Gujarat che diede i natali al “Mahatma” Gandhi, è stato membro e ancora oggi è referente politico di organizzazioni militanti dell’induismo come il Rashtriya Swayamsevak Sangh, cui è appartenuto l’assassinio di Gandhi e che nel suo lungo periodo alla guida del Gujarat, nel febbraio-marzo 2002, si è registrato il peggiore pogrom anti-islamico dalla separazione tra India e Pakistan nell’agosto 1947.