Il dossier in Pennsylvania. L'abuso sacrilego e la forza della verità
Un nuovo, crudo dossier ha rimesso davanti agli occhi di tutti il male e il male sacrilego compiuto da uomini di Chiesa. La Procura della Pennsylvania ha pubblicato un consistente rapporto sugli abusi sessuali perpetrati in sei delle otto diocesi dello Stato, frutto di un’indagine condotta per quasi due anni.
Un rapporto che individua trecento sacerdoti colpevoli, con nome e cognome, e identifica oltre mille minori che hanno subito abusi nel corso di settant’anni, quasi tutti anteriormente agli inizi del Duemila. I vescovi cattolici Usa hanno espresso «vergogna e dolore» per questo nuovo capitolo dello scandalo pedofilia, sottolineando però anche la collaborazione alle indagini e le misure assunte dal 2002, che impegnano a rispondere tempestivamente e con compassione alle vittime, denunciare gli abusi, rimuovere gli abusatori e assumere continue iniziative per prevenire, con l’impegno a garantire che la Chiesa sia un ambiente sicuro per i bambini e le famiglie.
Dopo la nota della Conferenza episcopale statunitense, non si è fatta attendere quella del Papa, che in questi anni con incessante determinazione ha fatto «salire il problema alla superficie per guardarlo in faccia». E anche per la Santa Sede «dolore e vergogna» sono le sole parole per esprimere quanto si prova di fronte a questi «orribili crimini», «atti che hanno tradito la fiducia e hanno rubato alle vittime la loro dignità e la loro fede». Guardando «con grande serietà il lavoro compiuto dall’Investigating Grand Jury della Pennsylvania» si condanna «inequivocabilmente l’abuso sessuale su minori», come ha dichiarato giovedì sera il direttore della Sala Stampa della Santa Sede Greg Burke.
Considerato poi come le nuove norme e le pratiche messe in atto negli ultimi due decenni dalla Chiesa cattolica negli Usa abbiano prodotto risultati importanti, riuscendo a ridurre in modo consistente l’incidenza degli abusi commessi da esponenti dal clero, la Santa Sede non ha mancato di incoraggiare «costanti riforme e vigilanza a tutti i livelli della Chiesa cattolica per garantire la protezione dei minori» e di sottolineare «la necessità di obbedire alla legislazione civile, compreso l’obbligo di denunciare i casi di abusi su minori».
Dichiarazioni a cui fa seguito un’affermazione lucida, impegnativa e importante: «La Chiesa deve imparare dure lezioni dal passato e che dovrebbe esserci un’assunzione di responsabilità da parte sia di coloro che hanno abusato sia di quelli che hanno permesso che ciò accadesse». La Santa Sede auspica dunque ancora una volta che abusatori ancora viventi e autorità ecclesiastiche che li hanno coperti si assumano le loro responsabilità. Sono queste affermazioni che riassumono in sintesi quanto il Papa ha detto e fatto in questi anni riguardo al problema pedofilia, che è «antica malattia», troppo spesso occultata. «La Chiesa è arrivata tardi», aveva detto lo scorso anno alla Commissione vaticana per i minori, «tardi nell’avere coscienza della gravità del problema, tardi nell’assumersi le proprie responsabilità. È la realtà: siamo arrivati in ritardo. Forse l’antica pratica di spostare la gente ha addormentato un po’ le coscienze». C’è stato un tempo, tra il 2009 e il 2010, segnato dalla devastante emersione degli abusi sessuali del clero, in cui si provò a dipingere l’immagine di una Chiesa ripiegata sul passato, in balìa delle proprie paure e delle perversioni di alcuni suoi membri, arroccata in posizione di autodifesa e contrapposizione dialettica nei confronti del mondo.
Ma proprio nel frangente più buio, e anche grazie all’umiltà serena di Benedetto XVI, si è assistito a una salutare virata. Con passo lento, senza clamori e fanfare, il Papa bavarese aveva archiviato l’immagine della Chiesa come cittadella assediata dai complotti leggendo le devastanti notizie sulla pedofilia del clero come un caso di «persecuzione dall’interno» riservata alla Chiesa dai peccati e dalle miserie degli stessi suoi uomini. Papa Ratzinger, deludendo diversi suoi sedicenti sostenitori, aveva proposto il volto di una Chiesa che si umilia chiedendo perdono e facendo penitenza, perché l’attacco più grave contro di essa non proveniva solo dall’esterno, da lobby anticlericali e anticattoliche, ma ancor più dal peccato al suo interno.
Con Francesco si è continuato su questo cammino. Basta leggere la lettera inviata all’episcopato cileno, tutta pervasa da quella coscienza 'penitenziale' che aveva caratterizzato l’approccio di Benedetto. Oggi il suo successore parlando di «dolore» e «vergogna» ricorda ai vescovi che non si guarisce con un colpo di spugna, chiede di andare a fondo, per esempio sulle coperture (colpevoli di abusi sono stati allontanati da un ordine religioso ma accolti altrove e messi di nuovo a contatto con i giovani), di rompere il muro di silenzio e omertà. La Chiesa non ha nulla da nascondere, non ha per vocazione la promozione di se stessa come un’azienda: per questo è libera di riconoscere e denunciare i mali commessi.
Una Chiesa non autoreferenziale è pronta a chiedere perdono per i crimini dei 'suoi', non censura il mistero del male ma nemmeno cede alla tentazione di liberarsi dalla perversione del male per forza propria. Chiede perdono al Signore, e dal suo perdono attende la guarigione. Così la coscienza del male commesso, e per troppo tempo negato o insabbiato, ha fatto scaturire una risposta che è quella di chi condivide la ferita nella carne delle vittime e di tutta la Chiesa e la società avvertendola come propria.