Opinioni

L'aborto (anche chimico) non è mai solo una procedura. E non è mai semplice

Marco Tarquinio sabato 19 settembre 2020

Signor direttore,
la reazione degli ambienti anti-abortisti alla circolare del Ministero della Salute del 12 agosto 2020, riguardante l’aggiornamento delle linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con procedura farmacologica continua a riproporre argomenti privi di qualsiasi evidenza scientifica. La litania ripetuta è quella della solitudine in cui viene a essere abbandonata la donna, e del grave rischio cui viene esposta. Paradossalmente, tali giudizi vengono espressi da coloro, anche medici ginecologi come noi che firmiamo questa lettera, che, in ragione dei loro convincimenti personali, non hanno alcuna esperienza di Ivg, né chirurgica, né, tantomeno, farmacologica; la letteratura scientifica in proposito smentisce drasticamente tali timori.
Altro motivo di critica sarebbe la “violazione” della legge 194 che tali linee di indirizzo comporterebbero (il riferimento specifico di questa lettera, come si evince dall’oggetto della lettera ad “Avvenire”, è all’articolo del giurista Alberto Gambino, presidente di Scienza&Vita pubblicato il 1° settembre 2020 e intitolato «Ru486, dove sono finiti i difensori della legalità?», ndr). Peccato che la legge stessa, all’articolo 15, abbia previsto la possibilità di innovare le tecniche di svolgimento della procedura dell’aborto prescrivendo esplicitamente «l’aggiornamento del personale sanitario sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza». Inoltre, l’articolo 8 della legge 194 prevede che, oltre all’ospedale, la procedura possa essere svolta in «poliambulatori funzionalmente collegati con l’ospedale». A questi possono essere assimilati i Consultori familiari che, per la presenza di una équipe multidisciplinare, sono le strutture più adatte ad affrontare la complessità della richiesta di aborto volontario. Solo una lettura ideologica dell’articolo 2 della legge 194, che definisce i compiti dei consultori nel percorso Ivg, può far affermare che queste sono strutture finalizzate esclusivamente alla difesa della vita e alla dissuasione dalla scelta dell’aborto.
In definitiva, le critiche del fronte antiabortista continuano ad assimilare la “semplificazione” di una procedura sanitaria alla “banalizzazione” della decisione di non portare avanti una gravidanza, che ha, invece, motivazioni profonde, certamente non legate alla tecnica utilizzata nella procedura. Non è certo questa, infatti, che può fare scegliere se diventare madri!

Mirella Parachini
Associazione Luca CoscioniAnna PompiliAssociazione medici italiani contraccezione e aborto


Il dibattito sull’aborto e sulla Ru486 non è solo un dibattito “tecnico”, gentili signore, proprio come affermate in conclusione di lettera e nonostante il fatto che nel cuore di essa (interpretando gli articoli 8 e 15 della legge 194) finiate per dare l’impressione contraria. Certo non lo è per chi – come noi e come le persone che stanno seriamente dialogando attraverso le nostre pagine sin dal 9 agosto scorso – in esso porta anche esperienza umana e visione umanistica e non soltanto argomenti tecnico-scientifici e giuridici. Certo non lo è per chi non si adegua alla presunta codificazione – la normativa italiana, piaccia o non piaccia, a tutt’oggi non dice questo – di un “diritto” ad abortire e alla teorizzazione di un “senso unico” verso scelte di morte che l’attività dei Consultori dovrebbe non soltanto presidiare, ma addirittura attuare.
Nel dibattito sulla Ru486 si pongono, e noi le stiamo ponendo, questioni di umanità, di diritto e di scienza. Per noi credenti – lo ammetto senza difficoltà e con la necessaria umiltà – c’è anche la questione di uno sguardo sulla donna e sull’uomo che è eco dello sguardo di Dio. Ma stiamo pure terra terra. E facciamo naturalmente i conti con le leggi vigenti e con lo stato attuale delle conoscenze medico-scientifiche. Perciò vi restituisco l’espressione che avete scelto per contestare i nostri articoli e le nostre analisi: solo attraverso una «lettura ideologica» condotta nel nome di un “abortismo” che si vuol proporre come “pensiero di libertà” e come dottrina dogmatica si può dare per scontato che la scienza avrebbe concluso il suo compito d’indagine decretando che l’esistenza umana prima della nascita è non-vita o è vita minore e assolutamente disponibile alla soppressione. Ancora più terra terra: che i Consultori possano essere assimilati a poliambulatori dove praticare l’interruzione di gravidanza è un’illazione, non una statuizione di legge. E sostenere che l’aborto chimico sia una “semplificazione” è uno spot, non un ragionamento. Siete ginecologhe, gentili signore, e dunque non serve un cronista, pur di ormai lunga militanza come me, per ricordare che la tragedia dell’aborto è scelta definitiva contro la vita del figlio o della figlia e non è mai semplice, né fisicamente né psicologicamente, per la vita e per il corpo della donna e madre. Eppure la retorica della semplificazione impera. E allora è necessario avvertire che “semplificare” sta diventando sinonimo di “banalizzare”. E la via chimica e “privata” all’aborto congiura a questo. Ma quale che sia la tecnica adottata, scegliere la vita o la morte, quando il bivio si propone, non è mai indifferente. E il segno resta, sulle persone e sulle civiltà.