Radici di futuro /10. L’abbecedario si chiama gratuità
Il denaro e i ragazzi vivono in mondi diversi. I contatti tra di loro sono sempre rischiosi, spesso dannosi. La sola buona borsa valori dei ragazzi è la borsa della mamma e del papà. La loro legge (nomos) della casa (oikos) è il dono, non il contratto né tantomeno l’incentivo. Quando hanno bisogno di denaro lo chiedono ai genitori, ed è dentro questo rapporto non-economico dove si impara l’abbecedario dell’economia. La dipendenza economica dai genitori è ottima, perché il denaro conosciuto all’inizio come luogo di gratuità amorosa crea le premesse etiche per dare domani il giusto valore ai contratti e al lavoro.
Dentro casa imparano che il denaro nasce dal lavoro dei genitori, che stanno molto tempo fuori per guadagnare quel denaro con cui vivere bene. È questa prima gratuità domestica che dà la giusta misura al denaro, al lavoro, all’economia. La paghetta da gestire e da amministrare in autonomia crea invece un contesto commerciale simile al “piccolo trafficante” (Garoffi) del libro Cuore, più consona all’”Omino anticipato”, Gigino, di Collodi (Storie allegre). Quando infatti iniziamo ad usare il denaro dentro casa come incentivo e lo sganciamo dalla logica del dono facendole diventare un mezzo per motivare i figli, snaturiamo la famiglia e il denaro. La mancia diventa il “perché” una ragazza fa i piatti e magari i compiti, e il denaro erode la grande legge dell’educazione: le azioni buone e giuste vanno fatte solo perché sono buone e giuste non per l’incentivo monetario. Quando invece neanche a casa impariamo l’etica della gratuità, sarà un giorno difficile imparare la logica diversa e complementare del contratto. Oggi i giovani non stanno sviluppando una buona amicizia con il mondo del lavoro anche perché la logica economica entra troppo presto dentro casa, grazie al cavallo di troia della responsabilità.
I guai di Pinocchio iniziano col denaro. Geppetto ha appena venduto la sua casacca per potergli comprare l’abbecedario – il mestiere dei genitori è restare in maniche di camicia per far studiare i figli: l’ho visto e lo vedo anche nella mia famiglia. Pinocchio (cap. IX) è ammaliato dal richiamo del pifferaio (interessante notare che “incentivo” deriva dal latino incentivus: il flauto che accorda e incanta), mette da parte il suo proposito di andare a scuola e decide di entrare nel “gran teatro dei burattini”. Chiede a un ragazzo: «Quanto si spende per entrare?». Anche Pinocchio conosce la legge fondamentale della vita fuori di casa: se vuoi qualcosa da qualcuno devi offrirgli qualcosa in cambio. Non la schiva, l’accetta e cerca di procurarsi i «quattro soldi». Dapprima prova a fare un baratto: offre invano al ragazzo la sua giacchetta di carta fiorita, poi le sue scarpe, il suo berretto di mollica di pane. Infine gli offre il suo oggetto più prezioso: «Vuoi darmi quattro soldi per quest’abbecedario?».
E qui arriva la risposta decisiva del ragazzetto: «Io sono un ragazzo, e non compro nulla dai ragazzi», un ragazzetto, commenta Collodi, che «aveva più giudizio di lui». I ragazzi non fanno contratti, non devono fare compravendite in denaro. Ma ecco la svolta: «Per quattro soldi l’abbecedario lo prendo io – gridò un rivenditore di panni usati». Entra in gioco un adulto, un commerciante, un professionista del denaro, che fa un gesto illecito e instaura una relazione sbagliata col ragazzo. I ragazzi vanno protetti dai “rivenditori di panni usati”; dal tempio dei ragazzi i mercanti devono essere cacciati via a bastonate, perché hanno diritto a un’altra oikonomia dove l’unica moneta è la gratuità.
Grazie a quei quattro soldi sbagliati Pinocchio entra nella corte di Mangiafoco. La storia la sappiamo. Anche questa termina con altro denaro: i famigerati «cinque zecchini d’oro» (capitolo XII), altra sorgente di molte disavventure di Pinocchio. Questo secondo episodio monetario è comunque diverso, apparentemente opposto. Mangiafoco non fa uno scambio con il burattino; gli dona, o meglio, gli regala i cinque zecchini d’oro - il regalo è una parola che proviene da re (rex, regis: regalie), e segnala una sua origine asimmetrica: il regalo viene fatto dai (o ai) potenti. Ma anche questa volta il denaro di un adulto non porta buoni frutti al ragazzo. Non è sufficiente una buona motivazione (come appare quella di Mangiafoco) per far del denaro qualcosa di buono per i ragazzi. Neanche il dono-regalo è buono se questo non si compie dentro rapporti primari, se quindi non è mediato dalla famiglia. Il denaro che arriva direttamente ai ragazzi senza questa mediazione casalinga si guasta.
È il possesso degli zecchini che infatti espone Pinocchio agli abusi del gatto e la volpe. Incontrandoli lungo la strada Pinocchio dice loro: «»Sono diventato un gran signore». Forse esagerava, ma nell’Ottocento in Toscana con cinque zecchini d’oro di compravano circa cinque quintali di grano. Non era un gran signore, ma certamente maneggiava troppo denaro. Il ragazzo, ingenuamente, ne parla con due sconosciuti, due adulti. Questa sincerità e affidamento nei confronti dei grandi è parte della bellezza transitoria e stupenda dei bambini e dei ragazzi, ed è anche la loro prima vulnerabilità: «E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco». In regalo, appunto. Questo abuso del gatto e della volpe è per Collodi talmente grave che nella prima versione del racconto conduce Pinocchio alla sua morte finale (capitolo XV); a dirci che per un ragazzo sbagliare il rapporto con il denaro è vitale, è questione di vita o di morte.
«O la borsa o la vita», gli gridano gli assassini – guai mettere i ragazzi di fronte a questo dilemma, perché è sempre la loro vita a perderci. Collodi per comporre il dialogo manipolatorio del gatto e la volpe fa ricorso al registro del dono e dell’altruismo: «Gli altri cinquecento zecchini li darò in regalo a voi», dice Pinocchio. «Un regalo a noi? Gridò la volpe sdegnandosi e sentendosi offesa – Dio ce ne liberi!… Non lavoriamo per il vile interesse: noi lavoriamo per arricchire gli altri» (capitolo XII). E poi Pinocchio dirà al gatto: «Se tutti i gatti ti somigliassero, fortunati i topi» (capitolo XVIII). Ma c’è di più. Nell’importante episodio di Pinocchio che prende il posto del cane da guardia Melampo, il burattino riconosce qualcosa di sbagliato nella proposta di corruzione che gli fanno le faine (tu stai zitto, non abbaiare, e noi ti diamo come tangente una gallina «bell’e pelata per la colazione di domani»: cap. XXII), e le denuncia al contadino. Le faine usano però il linguaggio dello scambio e dell’interesse, e il burattino scopre l’illecito. Il gatto e la volpe invece, più furbe ed esperte di umanità, usano il linguaggio del dono e del disinteresse: e lo “uccidono”. Non c’è nulla di più grave per un adulto di manipolare il linguaggio della gratuità per ingannare un ragazzo (e tutti).
I gatti e le volpi sanno che i ragazzi vivono dentro il registro del dono, è la loro lingua madre, e così dicono parole di morte con le parole buone di casa. Qui Collodi si mostra anche fine conoscitore del dibattito sul ruolo dell’egoismo e dell’altruismo nell’economia moderna, e forse aveva in mente la celebre frase di Adam Smith: «Non ho mai visto fare qualcosa di buono da chi affermava di trafficare per il bene comune» (La Ricchezza delle nazioni, 1776). Più in generale, un segnale che rivela spesso la presenza degli “assassini” in una relazione economica è la loro dichiarazione di lavorare solo per arricchire gli altri, senza alcun interesse personale. Pinocchio non poteva sapere che l’economia vera e buona vive di mutuo vantaggio, e che l’assenza del vantaggio in una delle due parti è segnale di un vizio, di un imbroglio certo quando è teorizzato dalla parte che non avrebbe interesse allo scambio. Noi però dovremmo saperlo.
Interessante notare che il gatto e la volpe sono anticipati in un romanzo giovanile di Carlo Lorenzini (non ancora Collodi), I segreti di Firenze. Il Capitolo II, “Due uccelli di rapina”, ci presenta il Conte Calami e la Contessa Floriani alle prese con le loro vittime: «“Bisogna pelare la quaglia con un po’ di umanità”, disse il conte. “Tutta l’umanità consiste nel non farla stridere”, disse la contessa, i di cui occhi brillavano sinistramente come quelli di un gatto selvatico» (Carlo Lorenzini, I misteri di Firenze, p. 33). L’ambiente nel quale si muovono i due «uccellacci di rapina» (espressione che troviamo nel paese di Acchiappacitrulli: cap. XVIII), è quello del gioco d’azzardo. Il Marchese Stanislao Teodori viene da loro catturato nell’ambiente delle bische e si rovinerà giocando: «L’ho visto venire al tavolino con venti paoli in tasca e puntare mezzo paolo per volta. Lo facciamo giuocare sulla parola?» (p. 34). In Giannettino, poi, il libro di Collodi per ragazzi che precede di pochi anni Pinocchio, ritroviamo al centro la scena di Giannettino che si gioca a dadi i soldi che la mamma gli aveva dato per comprare l’atlante: «Il più brutto della brigata disse: “Propongo una cosa: si gioca fra noi a chi deve pagare la cena per tutti?”. “Sì, sì, fuori i dadi” gridarono gli altri… “E bene”, disse Giannettino, “giochiamoci le cinque lire”. Le giuocò e le perse» (Collodi, Giannettino, p. 238).
È probabile che Collodi fosse un “giocatore”. Sembra che riprese a scrivere la seconda parte di Pinocchio per pagare debiti di questa natura: «Le puntate seguivano un pochino gli alti e bassi della sua borsa; e quando, uscendo all’alba dalla bisca di Palazzo Davanzati, sentiva tintinnare qualche soldo nelle saccocce, dava una scrollata di spalle e di pigliar la penna non se ne parlava se non quando si sentiva più leggero» (M. Parenti, Rassegna Lucchese, 1952). Se, infatti, leggiamo i capitoli dedicati al gatto e alla volpe ci accorgiamo che il clima è più quello del gioco d’azzardo che non dell’economia del suo tempo: «Vuoi tu di cinque miserabili zecchini farne cento, mille, duemila» (Cap. XII). La logica del guadagnare moltissimo senza far nessuna fatica – «per mettere insieme onestamente pochi soldi bisogna saperseli guadagnare o col lavoro delle proprie mani o con l’ingegno della propria testa», ricorda a Pinocchio il grosso pappagallo (cap. XIX) – era ed è la grande illusione-delusione del gioco d’azzardo, e oggi anche di certa finanza che gli somiglia troppo. C’è molto Collodi in Pinocchio. Pinocchio è anche l’uomo Carlo Lorenzini che ha cercato una propria redenzione sublimandosi in una meravigliosa storia donata. L’arte è capace anche di questo, trasforma il nostro sporco in bellezza per gli altri. I capolavori hanno bisogno di fragilità, è la fessura dell’anima dalla quale gli artisti in qualche giorno più luminoso sbirciano il paradiso.
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