Analisi. Così l'escalation sembra scongiurata, il ruolo degli Usa e l'attacco
L’immediata conferma di Teheran agli attacchi che «nonostante siano stati intercettati hanno comunque provocato danni limitati» somiglia molto a quella di inizio mese e a quella precedente seguita alle ondate di missili e droni inviati da Teheran dopo l'omicidio di Haniyeh a fine luglio a Teheran. Dire che un’ulteriore ritorsione di Khamenei non ci sarà, che il braccio di ferro alla massima potenza si fermerà qui, è presto. Il regime ha subito promesso che "il potere iraniano umilierà i nostri nemici". Di certo, anche questa volta, l’escalation potrebbe però essere stata scongiurata. L'Iran avrebbe infatti, al di là di proclami di facciata, informato Israele attraverso un intermediario straniero che "non risponderà all'ondata di attacchi sul suo territorio".
Questo però significa anche un’altra cosa: il livello dello scontro si è alzato ulteriormente. L’Iran per la prima volta era riuscito nei mesi scorsi a dimostrare di essere in grado di raggiungere Israele; le forze di Tel Aviv, con mezzi tecnici decisamente superiori, hanno confermato invece (e questa volta, la prima, hanno ammesso pubblicamente il blitz) quello che in teoria si conosceva: possono colpire quando e come vogliono il bersaglio grosso dei tre impianti nucleari, dei terminali petroliferi e dei centri del potere senza la possibilità di essere intercettati. Ma questa escalation potrebbe condurre a una sorta di deterrenza regionale. Portando gli ayatollah a un livello di peso politico che un anno fa non avevano: erano, sì, arrivati a pochi chilometri da Israele con le forze di Hezbollah, avevano ulteriormente spostato il loro asse di influenza con la presenza in Siria, ora sono comunque la seconda forza regionale. In una posizione acclarata dagli eventi.
Se così andasse, se questo significasse che per il momento è finita l’escalation sul campo, un primo vero grande vincitore potrebbe essere identificato nella tanto bistrattata diplomazia di Joe Biden. Per mesi è stato quasi preso a schiaffi dal premier israeliano Benjamin Netanyahu. La scorsa settimana ha risposto alle sue chiamate come non faceva da agosto. Biden aveva fatto pesare, pur sapendo di non poterlo fare con il più grande alleato politico e militare nella regione, la sospensione degli aiuti a livello di armi e tecnologia. Entrambi sapevano che non sarebbe mai successo, come entrambi avevano ben chiare le conseguenze del livello superiore allo scambio di missili a portata limitata. Così si spiega l’ultima missione del segretario di Stato Antony Blinken dopo essere venuto di persona a dare di fatto il via libera della Casa Bianca all’attacco di questa notte in cambio di rassicurazioni sugli obiettivi: basi militari, impianti radar di comando e controllo e strutture contraeree. Insomma gli ayatollah sono stati “accecati”, resi edotti del fatto di esserlo, ma non sono stati colpiti fino in fondo.
Così come si spiega la necessità di spiegare a Netanyahu come possano essere finiti alla stampa i "leaks" che piegavano tempi e modi del raid di fatto costringendo Israele ad anticiparlo, visto che secondo le intenzioni (uniche) del premier sarebbe stato in programma per settimana prossima, pochi giorni prima del voto del 5 novembre negli Stati Uniti. Azione, quest'ultima, che ha forse ridotto l'effetto deflagrante che avrebbe avuto il bombardamento a urne quasi aperte. Una situazione, quella nei confronti dell'Iran, è diventata ormai troppo ingombrante se sommata al Libano e Gaza per Biden per Kamala Harris che vorrebbe sostituirlo alla Casa Bianca, ma anche per Donald Trump. Che paradossalmente verrebbe ulteriormente spinto verso Pennsylvania Avenue da una nuova risposta dell'Iran. Una "follia" da non compiere, come i bene informati dicono ha fatto sapere la diplomazia dell'Amministrazione di Joe Biden, attraverso le triangolazioni più classiche, all'ayatollah Khamenei.