Opinioni

Analisi. La realtà “nascosta”: l'odio che minaccia Israele e il ruolo dell'Occidente

Andrea Lavazza lunedì 23 ottobre 2023

Una manifestazione pro Palestina a Città del Messico

Il 7 ottobre il movimento fondamentalista di Hamas ha lanciato un’azione terroristica su larga scala e senza precedenti contro i civili israeliani residenti nel Sud del Paese, i morti sono stati circa 1.400. Rispetto ad attentati e incursioni del passato, l’operazione ha assunto i contorni di pogrom compiuti nei secoli scorsi in Europa, quando venivano sistematicamente presi di mira gli ebrei, con incendi delle abitazioni, rastrellamenti e uccisioni, con lo scopo di eliminare la presenza della comunità da un territorio. Ciò che è poi stato realizzato in modo sistematico e tecnologicamente organizzato dal regime nazista con l’Olocausto con lo sterminio di circa 6 milioni di persone. A ciò è seguita la risposta armata di Tel Aviv, mentre dalla Striscia continua il lancio di razzi. Nemmeno due settimane dopo si è assistito a un moltiplicarsi di manifestazioni a favore di Gaza e della Palestina, spesso sconfinate nel sostegno esplicito ad Hamas.

Cresce l'intolleranza

In molte città europee e negli Stati Uniti, in vari Paesi dell'Asia e in Australia, oltre che ovviamente in Medio Oriente, si è assistito a un rigurgito di antisemitismo che in questa dimensione non si vedeva da tempo. Negli imponenti cortei di Londra si predicava la sparizione di Israele. A Barcellona, un albergo di un ebreo israeliano è stato assaltato durante le proteste. A Parigi una coppia di ebrei ha visto bruciata la porta della propria casa su cui era esposta la tradizionale mezuzah. A Lione, una sinagoga è stata vandalizzata con graffiti in arabo che inneggiavano a Gaza. In Polonia, i cartelli raffiguravano un cestino della spazzatura contenente la stella di Davide, buttata via per “tenere pulito il mondo”. A Berlino, è stata lanciata una molotov contro una sinagoga e stelle di Davide sono state disegnate con lo spray sulle case di alcuni ebrei, come facevano i nazisti per i loro bersagli. A Mosca, in modo simile è stato segnato un ristorante. A Vienna, raduni davanti alla sinagoga con tentativi di strappare la bandiera israeliana

Molti episodi anche negli Usa, seguendo la rassegna compilata da Marco Pierini, esperto di politica internazionale e vicesindaco di Montespertoli. Nella metropolitana di New York sono comparse scritte che chiedono di uccidere gli ebrei. Un formatore dell'università del Michigan ha celebrato Hamas dicendo che biasimare il movimento per aver lanciato missili è come biasimare una donna che colpisca il suo violentatore. All'Università di Berkeley, alcuni studenti hanno aggredito un collega ebreo inneggiando alla fine dello Stato di Israele. A Chicago, una docente universitaria si è augurata che gli israeliani marciscano all'inferno in quanto maiali e selvaggi. A Toronto, in Canada, è stato preso di mira un caffè di proprietà di un ebreo canadese e i manifestanti hanno chiesto di boicottare il locale sionista. A Detroit, infine l’episodio più grave ma ancora da chiarire nelle sue motivazioni: è stata uccisa a coltellate la presidente di una sinagoga, Samantha Woll, 40 anni, che, da laica, si occupava dell’amministrazione.

A Seul, i cartelli celebravano Hitler come “colui che è in grado di risolvere definitivamente il problema”. A Sydney le persone in piazza hanno invocato le camere a gas per gli ebrei. In Tunisia, una sinagoga è stata presa d'assalto e messa a ferro e fuoco ad El Hammam. Al Cairo si è invocata l'uccisione degli ebrei riprendendo gli antichi canti della conquista islamica.

In Italia deriva preoccupante

A Milano, durante il corteo di sabato 21 ottobre nel centro della città, è stata portata un’effigie di Anne Frank con la kefiah per significare che gli ebrei fanno ora ai palestinesi quello che i nazisti facevano agli ebrei. Il sionismo è stato paragonato al nazismo e alcuni manifestanti cantavano in arabo di aprire i confini in modo che si possano uccidere gli ebrei. Nel capoluogo lombardo, come a Londra, la comunità ebraica, intimorita, invita prudentemente a non indossare la kippah né esibire altri simboli che indicano identità e appartenenza – una ferita e una sconfitta per una società libera. A Berlino, le famiglie non hanno mandato i ragazzi a scuola di fronte al clima di crescente tensione, segnato da scioperi contro Israele degli esercizi gestiti da arabi.

A manifestare a Milano c’erano fra le 5mila e le 10mila persone. Una minoranza esigua. I sondaggi di opinione mostrano per l’Italia un certo disinteresse per le vicende mediorientali, anche se i sedicenti simpatizzanti (a parole) di Hamas raggiungono cifre di poco inferiori al 10 per cento. Al di là delle radici storiche complesse, cui può avere contribuito anche un antico antigiudaismo cristiano, davanti a questa ostilità risorgente nei confronti degli ebrei in quanto tali (antisemitismo) e delle espressioni politiche organizzate della comunità, in particolare Israele (antisionismo), molti di coloro che non sfilano per le strade, anche in buona fede, si sentirebbero di suggerire che il governo di Tel Aviv e anche parte della popolazione (segnatamente i coloni e le frange più aggressive verso gli arabi) adottassero una linea più morbida e aperturista verso i palestinesi. Fare concessioni, fino alla creazione di due Stati, potrebbe non essere ciò che Israele vuole per motivi puramente altruistici, ma andrebbe a suo vantaggio dal punto di vista dell’immagine, per così dire. Crearsi buona stampa, mostrare volontà positiva può contribuire a togliere ogni alibi a chi contesta e aizza l’odio, anche per non esporre a forti rischi tutti gli ebrei residenti all’estero.

La minaccia esistenziale

Ma qui emerge la “rottura” del 7 ottobre e la complessità e la gravità di una situazione che non si può domare soltanto a parole. L’attacco di Hamas ha messo in moto – o è stato l’avvio programmato – un’escalation di violenza che costituisce una minaccia esistenziale per Israele, come accadde nel 1948 alla nascita dello Stato e nel 1973 con la guerra del Kippur, il cui anniversario non casualmente è stato scelto per compiere i massacri. Quale sia la portata del progetto di Hamas e di chi lo sostiene, a partire dall’Iran degli ayatollah, emerge con chiarezza da un’intervista rilasciata ad Al Arabiya, emittente televisiva degli Emirati, da uno dei leader storici dell’organizzazione, Khaled Mesh’al.

Molti si sono concentrati sulle incalzanti e scomode domande dalla giornalista in studio, Rasha Nabil, certamente da lodare per capacità professionale e coraggio. Ma più importanti sono i contenuti. Ha detto Mesh’al (che non sta a Gaza): “Le nazioni non si liberano facilmente. I russi sacrificarono 30 milioni di persone nella Seconda guerra mondiale per liberarsi dall’attacco di Hitler. I vietnamiti sacrificarono 3,5 milioni di persone per sconfiggere gli americani. L’Afghanistan ha sacrificato milioni di martiri per sconfiggere l’Urss prima e gli Usa poi. Il popolo algerino ha sacrificato sei milioni di martiri in 130 anni. Il popolo palestinese è come qualsiasi altra nazione, nessuna nazione viene liberata senza sacrifici. In tutte le guerre ci sono vittime civili, noi non siamo responsabili per esse”.

Di fronte a un nemico che non ha scrupolo a lodare e portare come esempio il sacrificio di milioni (milioni, va sottolineato) di persone e di civili specificamente, è difficile proporre una via esclusivamente negoziale per risolvere il conflitto. Certo, la reazione armata si giustifica nel colpire i miliziani di Hamas, ma non per i cosiddetti danni collaterali. Perdite tra i non combattenti in qualche caso possono risultare inevitabili, eppure non dovrebbero essere accettate a cuor leggero. Dopo la falsa attribuzione dell’esplosione all’ospedale anglicano all’aviazione israeliana con un esagerato bilancio di vittime, le cifre dei morti diffuse da Hamas vanno prese con qualche scetticismo. Ma i bambini uccisi nei raid dal cielo sono sicuramente molti, così come le donne e gli anziani. E queste conseguenze non sono accettabili, così come le distruzioni massicce di case e infrastrutture.

Vicinanza e rispetto umanitario

Oltre ad Hamas, Israele si trova a fronteggiare Hezbollah a Nord e la possibile azione diretta dell’Iran, che ha, o mira a possedere, armi di distruzione di massa. Possiamo dire a Israele di contenersi e di rispettare il diritto internazionale umanitario nella sua campagna di anti-terrorismo? Sì, dobbiamo. Come dobbiamo portare aiuti umanitari alla popolazione di Gaza. Ma siamo disposti a rendere questo consiglio-raccomandazione concreto e praticabile? Gli Stati Uniti l’hanno fatto inviando navi da guerra e aerei pronti a intervenire. Così il presidente Biden ha potuto rivolgersi con parole anche urticanti al premier Netanyahu in pubblico, chiedendogli in privato di non attaccare Hezbollah e di rinviare l’attacco di terra a Gaza.

L’Europa e il resto del mondo libero, che hanno a cuore il rispetto della vita umana e della libertà, dovrebbero fare lo stesso. Garantire un impegno totale al fianco di Israele e contribuire a creare una rete di protezione dello Stato e delle comunità ebraiche nei loro confini. Premere sulle nazioni arabe e islamiche perché non finanzino più i fondamentalisti nella regione. E quindi sollecitare Tel Aviv a una moderazione che possa superare la necessità sperimentata oggi dai vertici israeliani di conquistare e mantenere una superiorità militare sul campo che prevenga altre offensive del nemico.

Non comprendere la specificità di una situazione in cui è in gioco non solo una vittoria o una sconfitta militare, una conquista o una perdita territoriale, un guadagno economico o un impoverimento, bensì, almeno come obiettivo, la stessa esistenza di un’entità statuale e di un popolo, impedisce anche di trovare soluzioni che avvicinino alla pace.