L'effetto – surreale e quasi da film – è quello delle porte girevoli, con la possibile scarcerazione del vecchio (e ancora odiato?) Faraone Mubarak e l’imprigionamento nello stesso penitenziario del carismatico capo spirituale dei Fratelli musulmani, Mohammed Badie, per più di un anno l’autorità di riferimento dell’Egitto. Impossibile non percepirne anche la portata simbolica, come se il generale al-Sissi volesse riportare le lancette a prima dell’inizio della primavera araba, nel 2011. Non è così in realtà: l’Egitto di oggi porta con sé i traumi di una libertà conquistata e presto tradita dall’intransigente incapacità del ex presidente Morsi, del colpo di mano popolare e dei massacri di questi giorni. Nessuno può pensare di "ricominciare" da dove i giovani avevano interrotto la stanca rappresentazione di un regime privo di vitalità.Addirittura, guardando alla durezza della repressione militare e agli arresti dei capi islamisti, per qualcuno è stato naturale pensare – più che agli ultimi anni di Mubarak – al tentativo fatto da Nasser nel 1954, poco dopo la conquista del potere, di sbarazzarsi della fratellanza con la forza. La storia ci ha mostrato come è finita: la retorica e gli ideali nasseriani sono scomparsi da tempo, mentre l’islam politico dei Fratelli ha attraversato tutta la storia dell’Egitto indipendente, sopravvivendo a ogni tempesta. Da questa prospettiva, la repressione non sembra dunque la strada migliore per indebolire l’organizzazione islamista, tanto abile nel proporsi come opposizione quanto disastrosa e inadatta nella sua esperienza di governo.Eppure, rispetto al 1954, il panorama interno alla regione è molto cambiato. Allora, l’Egitto era il Paese di riferimento di tutto il mondo arabo e i Fratelli musulmani espressione di un’ideologia che si andava allargando nella regione. Oggi, molti egiziani vivono con un misto di sorpresa e indignazione la loro sudditanza economica e financo teologica rispetto alle monarchie del Golfo: le rivolte del 2011 hanno infatti visto aumentare il ruolo di Arabia Saudita e Qatar. Da queste nazioni si sono riversati fiumi di denaro per aiutare l’islam politico dei Fratelli Musulmani (Qatar) e i movimenti puristi e dogmatici dei salafiti (Arabia Saudita).La caduta di Morsi è stata una sconfitta per il Qatar, il cui nuovo emiro sembra voler ridurre la sovraesposizione geopolitica del piccolo Stato. Si rafforza al contrario il ruolo dei sauditi, i quali hanno subito promesso enormi aiuti economici ai militari e il loro sostegno politico. Una fretta che rivela le paure, anzi le ossessioni, del vecchio re saudita Abdullah, ostile all’islam politico della Fratellanza, perché timoroso che possa diffondersi nel Golfo, assieme alle temute idee di rappresentanza, elezioni e democrazia (sia pure in salsa islamica). I sauditi offrono i loro petrodollari – a rimpiazzare abbondantemente la possibile fine degli aiuti occidentali – ma in cambio di che cosa? A star loro a cuore non è tanto la stabilità dell’Egitto, quanto impedire che possa tornare a essere un modello di riferimento per le masse arabe. È questo un punto cruciale per tutti: l’Occidente deve riflettere molto bene prima di sospendere gli aiuti, consegnando (almeno economicamente) il Paese ai rappresentanti dell’islam più reazionario e rinunciando a "sporcarsi le mani" con la realtà, unica via per aiutare una difficile e lunga normalizzazione (come dimostra la forza del jihadismo in Sinai). Al-Sissi e l’establishment politico-militare che lo circonda devono invece convincersi che gli aiuti finanziari sauditi, per quanto necessari, servono a impedire il collasso di una popolazione immiserita e di una nazione ferita. Ma non al punto di accettare passivamente l’avvento di un nuovo dittatore militare: al-Sissi non si illuda di poter essere altro che un "normalizzatore", con il compito di riavviare un progetto politico inclusivo di tutte le anime dell’Egitto. Non certo di ripercorrere le ormai logore orme di Nasser.