Opinioni

Reportage. Iraq, nella provincia di Ninive la ricostruzione è speranza

Laura Silvia Battaglia martedì 29 ottobre 2019

Un edificio distrutto dai combattimenti nella zona Ovest di Mosul (Ansa)

A Mosul chi è senza peccato scagli la prima pietra. Ecco perché qui – nella città che si è "macchiata" di complicità con lo Stato Islamico – si protesta col contagocce contro il governo iracheno centrale. Eppure di motivi per scendere in piazza ce ne sarebbero molti. Nella Mosul che cerca di ricostruirsi un’identità dopo gli anni di governo del Daesh si sta bene attenti a non fare passi falsi per non inimicarsi chi decide sulla ricostruzione. I manifestanti in piazza gridano "Eyab Eyab", chiedendo al governo di Adel Abdul Mahdi le dimissioni. In città si accendono candele in ricordo di chi ha perso la vita negli altri centri urbani durante le proteste: è stata issata la bandiera irachena e rispettato un minuto di silenzio. Ma, comparata alle altre manifestazioni che sono partite dalle città del Sud dell’Iraq, Bassora in testa, fino alla capitale Baghdad, la reazione di Mosul è stata blanda.

Il fatto è che qui a Mosul la protesta non è scontata perché l’area è governata dal sindaco Zuhair al-Araji, esponente della coalizione Fatah, e vicina alla personalità politica di Falih al-Fayyad, chairman delle Popular Mobilization Forces che hanno contribuito alla liberazione di Mosul e sulla quale convergono interessi economici nel settore energetico e consenso popolare comune. Al Araji, infatti, è l’unica autorità locale che non è stata fatta fuori dalla pulizia politica operata dal premier nello scorso marzo quando, dopo la tragedia del traghetto andato alla deriva sul Tigri con centinaia di persone a bordo, soprattutto donne e bambini, tutti morti annegati, Mahdi ha sostituito il governatore della provincia di Ninive Nufal Hammadi con Manour al Mareed e gli ha affidato la gestione della città. Così a Mosul non si vedeva una protesta da quel marzo, quando centinaia di persone si sono riversate in strada per chiedere giustizia per le vittime e maggiore sicurezza nei trasporti via battello sul Tigri. Se allora il primo imputato sul tribunale dei cittadini era il governatore della provincia, oggi è il sistema Paese.

Abdul-Jabbar al-Joubri, un residente che ha perso moglie e figli nel disastro del traghetto, ripete una narrativa che accomuna molti abitanti di Mosul: «In Iraq non c’è speranza di avere giustizia, la corruzione è imperante. Io non mi fido di nessuno. E poi qui a Mosul ci stanno già facendo pagare il fatto di esserci piegati al Daesh. Avete visto la città vecchia a Ovest? In due anni è ancora tutta rasa al suolo». La visita nella vecchia Medina di Mosul ce lo conferma: qui non c’è più traccia di secoli di storia, e della stratificazione di civiltà e fedi, dalle sinagoghe alle chiese fino alle moschee. Tutto è ridotto a un informe ammasso di macerie. L’unica differenza con i giorni immediatamente successivi alla liberazione della città, di cui siamo stati diretti testimoni, è l’assenza di puzzo di carogna, l’odore inevitabile di ogni guerra.

Omar Saad, che sta ricostruendo con fatica la sua casa di proprietà, ancora miracolosamente intatta, sul limitare del perimetro della città vecchia, dice: «Hanno tolto solo i cadaveri, tirando via per ultimi quelli degli attentatori suicidi. Parrebbe che ci siano molte mine antiuomo, lasciate dal Daesh prima di abbandonare le case e infatti, ogni tanto, ci scappa un ferito. Ma potrebbero procedere molto più velocemente a sminare, invece è tutto fermo da due anni». Il fatto è che prima bisogna aspettare che la giustizia faccia il suo corso, almeno nell’identificazione dei traffici illeciti e dei movimenti di denaro di migliaia di dollari tra affiliati del Daesh sotto copertura a Mosul. Anche gli aiuti internazionali stanno arrivando, ma lentamente e sono sempre troppo pochi: dopo la Conferenza del febbraio 2019 in Kuwait, 330 milioni di dollari sono stati stanziati subito per la ricostruzione solo dal Kuwait, anche se, secondo le stime delle Nazioni Unite, per ricostruire 40mila case solo a Mosul sarebbero necessari 17 miliardi di dollari e 42 per tutta la provincia.

Il governatore della provincia di Ninive, Nofal al-Akoub, lo ha fatto presente alla Conferenza prima e più volte poi. Gli aiuti americani sulla provincia di Ninive sono concentrati sulle comunità cristiane a rischio estinzione e dispersione, soprattutto a Qaraqosh, dove gli Stati Uniti stanno finanziando diversi progetti, tra cui la ricostruzione delle fattorie ad opera dell’italiana Avsi per un totale di 3milioni di dollari. Un’operazione che sta coinvolgendo 101 aziende in due anni per un totale di più di 3.262 beneficiari. Emad Aziz è uno di questi: appena saputo che il Prm (ossia il fondo per i Rifugiati americano) finanziava le aziende, le fattorie e i coltivatori e Avsi, la Ong italiana partner era in cerca di beneficiari, si è fatto avanti. E ha trasformato la terra che prima possedeva in un fazzoletto verde, ricco di ogni ben di Dio, dagli alberi da frutto agli ulivi. Scrollando la testa, mostra quanto è riuscito a fare in soli sei mesi: «Amo la mia terra: non potrebbe essere diversamente, altrimenti non sarei mai più ritornato qui. Non avrei mai più scommesso su un futuro possibile». Più di Emad, che è ritornato a Qaraqosh dopo un periodo di tre anni come rifugiato nella vicina Erbil, ha fatto Ivan Habib Matti che dall’Australia – dove si trova ancora uno dei suoi fratelli, mentre altri due vivono in Francia – ha dato un’ulteriore svolta alla sua vita. Dopo quasi un anno, il campo che ha coltivato a ortaggi, grazie al finanziamento americano, sta dando i suoi frutti. È riuscito anche a delimitarlo con un lungo filare di ulivi.

Ivan crede fortemente nella possibilità per i cristiani di Qaraosh di riprendersi per sempre quello che è stato loro tolto dal Daesh. «Voglio vivere e morire qui, nella mia terra che è la terra dove vivevano tutti e venti i membri della mia famiglia. Anche per questo i miei figli sono con me: voglio passare loro il testimone». Di sicuro a Qaraqosh, grazie ai finanziamenti stranieri, provenienti dagli Stati Uniti e da altre istituzioni internazionali e delle varie chiese cristiane, si respira tutt’altra aria che in altre zone della piana di Ninive e del governatorato di Mosul, a partire dal ripopolamento della zona che qui a Qaraqosh contava 40mila abitanti prima della guerra. «Adesso abbiamo censito circa 26mila abitanti – dice il sindaco Isam Binham Daboul, che amministra la zona per conto del governo di Baghdad –. Non è facile perché la maggior parte sono emigrati all’estero e oppongono giuste resistenze al rientro: chi ha avuto le case distrutte o bruciate ha perso tutto quello che aveva». Per questo diventa necessario fare ripartire l’economia. «La piana di Ninive è stata il granaio dell’Iraq per secoli – spiega Daniele Mazzone, coordinatore del progetto per la Ong italiana Avsi –. Se uno degli obiettivi, anche dei locali, è ripopolare le zone devastate dal Daesh, non è possibile farlo se non si fa ripartire tutta l’attività agricola della quale la zona ha sempre rappresentato l’eccellenza».

Per farlo, la chiave è tuttora l’iniziativa portata avanti da padre George Jakola, instancabile guida della comunità cristiana locale. Padre Jakola ha provveduto, fin dal 2016, a mappare la città in dieci zone e a censire le 7mila case di Qaraqosh, per preparare un database molto utile, oggi, alla ricostruzione e ai donatori. Una sorta di catasto oggi a disposizione delle autorità di Baghdad. «Non pretendiamo di sostituirci a nessun attore locale – sottolinea padre George – ma abbiamo cercato di fare quello che la chiesa dovrebbe fare, soprattutto in assenza di altre istituzioni: fare comunità e servire la comunità. Adesso che Qaraqosh ha di nuovo una struttura amministrativa attiva e funzionante, rimettiamo la nostra esperienza nelle mani del governo». A Qaraqosh, grazie a un impegno di ricostruzione reale della società civile, in un anno la metà dei cristiani è ritornata a casa. A differenza di Qaraqosh, Mosul ancora aspetta.