Di tutto avevano bisogno Washington e Teheran tranne che dell’attenzione della stampa internazionale sui progettati colloqui diretti a pochi giorni dalle elezioni presidenziali statunitensi e subito prima dell’ultimo faccia a faccia Obama-Romney, dedicato principalmente alla politica estera. Ufficialmente, si sa, ogni rapporto diretto fra Iran e Stati Uniti è interrotto dal 1979, anno in cui avvenne l’assalto all’ambasciata americana da parte di giovani sostenitori di Khomeini. In realtà, da molti anni sono stati aperti una moltitudine di canali ufficiosi, talora complicati, macchinosi e bizzarri, talaltra inutili. È dal 2009 che l’amministrazione Obama segnala la propria disponibilità a parlare con i vertici di una Repubblica islamica profondamente divisa al proprio interno. L’ostacolo maggiore è finora sempre stato il leader supremo, l’ayatollah Khamenei, profondamente contrario a ogni apertura all’odiato "Grande Satana" e convinto che dietro ogni offerta occidentale si celi una trappola mortale. Ma quest’anno, sia pure con quella lentezza e con quei contorcimenti che rendono sfinente ogni trattativa con gli iraniani, è emersa a Teheran la crescente necessità di uscire dall’impasse di sanzioni economiche e isolamento attraverso trattative dirette con Washington. L’unica mossa che si crede possa sbloccare lo stallo. Una decisione sofferta e probabilmente non definitiva: sono pochi i consiglieri che osano parlare apertamente a Khamenei e ogni pressione diretta rischia di provocare la reazione opposta, o di causare la caduta in disgrazia di chi tenta l’approccio. Anche negli Stati Uniti il tema è estremamente spinoso, tanto più in campagna elettorale. Fra i consiglieri di Obama, per mesi, è divampata un’accesa contesa sulla linea da tenere con l’Iran: se passare alle misure estreme di un bombardamento o rilanciare i negoziati. Alla fine, sembrano aver vinto le colombe. Nei mesi scorsi, lo "zar" della Casa Bianca per le armi di distruzioni di massa, l’influente consigliere Gary Samore, ha incontrato – probabilmente in Turchia – alti rappresentanti iraniani, vicini a Khamenei e ai pasdaran. Samore è considerato un sostenitore della linea pragmatica, contrario a un eccesso di durezza e favorevole al raggiungimento di un accordo che non punti a umiliare Teheran. Proprio ora che gli effetti delle sanzioni spingono molti, in Iran, a riconsiderare la propria intransigenza. Inutile sottolineare come in entrambi i Paesi vi siano lobby e forze ostili a questa linea. Negli Usa, è fortissimo e influente il partito che spera di usare la crisi sul nucleare per isolare completamente la Repubblica islamica e puntare al suo crollo. In Iran, vi è chi teme che ogni apertura appaia un cedimento e spinga a un processo incontrollato di richieste e cedimenti interni. La fuga di notizie avviene proprio ora, con un Obama in calo di consensi, e serve probabilmente a questo scopo: bruciare i contatti e forzare entrambi a secche smentite. È già successo in passato, del resto. Con la differenza che gli iraniani avevano già posto come condizione il posporre questi contatti al dopo elezioni. Inutile esporsi, è il loro ragionamento, quando non vi è certezza di chi sederà alla Casa Bianca. Dovesse vincere Romney (che l’altra notte ha ribadito una linea di chiusura totale), difficilmente le trattative resisterebbero al cambio di linea. Venisse confermato Obama (che nel dibattito non si è sbilanciato, anche per non scontentare ulteriormente Israele), al contrario, Teheran avrebbe di fronte un presidente al suo ultimo mandato e quindi più libero nelle proprie iniziative e decisioni. In ogni caso, dovessero mai tenersi questi colloqui diretti, sarebbero solo l’inizio di un percorso travagliato: le differenze fra le richieste e le offerte in tema di trattative sul nucleare sono ancora molto ampie. Il rischio maggiore sta forse proprio nel fatto che Washington e Teheran si ritrovino a parlarsi ufficialmente dopo oltre trent’anni e scoprano di avere molto poco da dirsi.