Lettere ad Avvenire. «Non riesco a comprendere gli atei». Dobbiamo dare testimonianza
Caro Avvenire,
in questi giorni si è spento, all’età di 84 anni, Gianni Boncompagni: autore televisivo e radiofonico, paroliere e conduttore. D’origine aretina, ha rivoluzionato la radio e la televisione italiane firmando programmi molto apprezzati dal pubblico. Personalmente non posso non plaudire al successo riscosso da quest’uomo dotato di spirito, di un’intelligenza vivace, di un’intraprendenza invidiabile. Ma ciò che non posso "perdonargli" è il suo ateismo. Egli dichiarò, nel 2012, in un’intervista: «Io sono sempre stato ateo e morirò ateo». Trovo inconcepibile e strano che un uomo possa negare l’esistenza di Dio. Per me la sola Bibbia è più che sufficiente per crederci. E poi, come si può non riconoscere che Dio è il creatore al quale tutte le bellezze dell’universo appartengono. Nessun filosofo o scienziato è riuscito a dimostrare che Dio non esiste. Requiescat in pace, caro dottor Boncompagni!
Gentile signor Petraglia, devo confessarle che io non trovo 'inconcepibile' che molti uomini non credano in Dio. Sarà perchè sono diventata adulta, a scuola e nel lavoro, in un ambiente non credente, sarà perché tali erano alcuni dei miei cari amici e perfino un fratello, ma io per chi non crede ho una sorta di affezione, come per antichi compagni di strada. Intendiamoci, ci sono gli atei che sbandierano la propria mancanza di fede con arroganza, quasi fosse in realtà un altro credo, e che manifestano per i credenti una sorta di pietosa sufficienza. Non a questi atei mi riferisco – benché anche con loro mi venga voglia di un confronto – ma a chi semplicemente dice: io non vedo Dio, non lo tocco con la mano, non posso credere. Ecco, questo secondo tipo di ateismo io lo rispetto e riesco a comprenderlo. La fede è un dono da domandare e da accettare liberamente. Non mi scandalizza chi, per mancanza di educazione, per solitudine, o per i dolori incontrati nella vita, questa fede non l’ha. Certo, anche a me, adesso, la bellezza dell’universo, o certe parole del Vangelo, sembrano una evidenza cui inchinarmi. Però mi ricordo di quando non era così. Né trovo molto utile ingaggiare dibattiti filosofici sulla esistenza di Dio, o insistere in appassionati sermoni. Se un uomo è cristiano, trovo che prima che con le parole la sua fede deve trasparire dal suo modo di essere. Dalla fiducia in quel Dio all’altro sconosciuto, dal sapere reggere nelle prove invece che esserne annientati; dalla sincerità, dalla fedeltà, dalla disponibilità a volere bene a chi hai vicino, ateo oppure no. È questo sguardo, credo, che alle origini del cristianesimo colpiva e affascinava i pagani: un modo di guardare all’altro, che non si era mai visto prima. È questo sguardo, la differenza fra il proselitismo e la testimonianza cristiana che ci viene chiesta. Cercare di portare all’altro, silenziosamente, mitemente, il volto di Cristo, pure attraverso la povertà della propria persona. Molto più difficile che fare proclami e dibattiti. Dire con gli occhi, con un sorriso, con la propria vicinanza nei momenti duri, che esiste una valida ragione per sperare. Fare questo fedelmente, senza nemmeno attenderci un risultato che non dipende, infine, da noi. Fino a quando magari, e talvolta succede, quell’amico, quel collega non si ponga una domanda, non si chieda il perché di quella diversa umanità. Testimonianza, questa cui siamo chiamati, più che mai necessaria in un mondo secolarizzato come il nostro. Sono anche queste le periferie che, come ci ripete il Papa, ci attendono.