La guerra. Investire sulle spine dorsali della società civile che c'è in Russia
Sì, il premio Nobel per la pace 2022 è un messaggio al mondo, ma soprattutto lo è alle società civili di Russia, Bielorussia e Ucraina. Dice qualcosa che in questi mesi dall’inizio dell’aggressione dell’esercito di Vladimir Putin all’Ucraina, è emerso con sempre maggiore chiarezza: la speranza non può che appoggiarsi qui. Su quelle che Dimitri Muratov ha definito, appena qualche giorno fa, le «spine dorsali» della coscienza di un Paese. I luoghi concreti e le vite concrete dove si genera la risposta all’ingiustizia e alla violenza che rifiuta radicalmente entrambe, e lavora con il metodo della nonviolenza per sovvertirle.
Pensiamo alla Russia di oggi, alle giovani generazioni, che hanno voglia di vivere, di costruire, di andare incontro al resto del mondo e di non esercitare in alcun modo il ruolo dell’aggressore. Pensiamo ai “disertori” civili russi che continuano a cercare una strada per non andare a uccidere o a essere uccisi. La scelta di assegnare il Nobel a Memorial, insieme agli attivisti bielorussi e ucraini, e dopo quello a Dmitri Muratov, è un forte segnale di fiducia e di coraggio a quella moltitudine di donne e di giovani che dentro la realtà russa esiste e agisce. La memoria, la storia dei crimini del passato come esplicito monito per il presente è qualcosa che è risuonato in diverse voci proprio recentemente.
Ricordo le parole di Jan Rachinskij in occasione dell’evento “Maratona Gorbaciov” tenutasi il giorno del funerale dell’ex presidente dell’Unione Sovietica mentre davanti al feretro si allungavano file di giovani. Osservò che quelle persone in fila, nate prevalentemente dopo la dissoluzione dell'Urss, rappresentano la speranza del Paese perché se in quella occasione hanno pensato fosse giusto e importante esserci, «questo ci dice che non tutto è perduto». Che l’eredità di quanto fatto da Gorbaciov ha lasciato il segno e rappresenta una speranza per il futuro. Rachinskij aveva iniziato il suo intervento ricordando la repressione e la chiusura di Memorial proprio poco prima del via all’invasione dell’Ucraina, in un contesto che vede soffocata la libertà di espressione. E proprio questo illumina il valore del Nobel attribuito venerdì.
È un premio alle persone che Memorial hanno tenuto caparbiamente in vita in questi anni, anche dopo la chiusura della sede e la cancellazione dal registro decisa da Putin poco prima del 24 febbraio. È un premio a chi ha continuato non solo ad alzare la propria libera voce libera e a scandire un rotondo no alla guerra, ma ha saputo e sa essere credibile riferimento, a differenza del potere costituito, per quei giovani pensanti e coraggiosi e per la società civile tutta. È un premio che diventa anche un investimento di fiducia in quella stessa società civile, seppur fragile e messa spalle al muro e in galera. È un premio più importante di qualunque arma. E dice di un vuoto di investimento nell’altra Russia. Un vuoto che è frutto di ciò che non è stato fatto (o è stato fatto con poca convinzione) in questi mesi di guerra aperta e in questi anni di reciproca ostilità e di reciproci affari tra Russia e Occidente.
È stato un messaggio diretto anche a tutti noi nel giorno dell’anniversario dell’assassinio di Anna Politkovskaja. Quelli che in Russia si oppongono alla guerra e spesso patiscono in solitudine nella disattenzione del mondo – come Alexandra Skochilenko, Maria Ponomarenko e migliaia e migliaia di altri incarcerati – non devono essere dimenticati. Hanno bisogno di tutta la nostra solidarietà e del nostro sostegno. Chi chiede con forza la pace, e si prepara a chiederlo con più forza, sta con loro, dunque lo faccia apertamente anche per loro.