Le fragili frontiere. Investire nella società civile per non far esplodere l'Africa
Il tema della delimitazione dei confini tra gli Stati africani continua a rappresentare una questione scottante che spesso viene sottovalutata nei pronostici sulle future performance dei governi locali. Lo scenario, in effetti, è molto complesso ed esige un’attenta disamina. Anzitutto, va ricordato che l’Africa, quanto a dimensioni, è tre volte l’Europa. Una percezione deducibile solo attraverso la raffigurazione del mondo disegnata dal grande Arno Peters, fondatore dell’educazione alla mondialità; un’illuminata iniziativa editoriale lanciata nel nostro Paese dall’Associazione Studi America Latina (Asal). Peters elaborò, nel 1973, una nuova proiezione della Terra, un planisfero ad aree equivalenti, per rispettare i rapporti di superficie tra i continenti. Sta di fatto che guardando la carta di Peters ci si accorge che l’Africa, con i suoi oltre 30 milioni di chilometri quadrati, è davvero più grande di quella che appare nella cartina tradizionale di Mercatore (che sacrifica di proposito l’esattezza delle superfici a vantaggio della precisione degli angoli, per far sì che il navigante tracci le rotte da un porto all’altro); mentre la superficie della Groenlandia risulta fortemente ridotta, come pure quella della Siberia.
Lo stesso risultato ha ottenuto, alcuni anni fa, la rappresentazione del designer tedesco Kai Krause dalla quale si evince che tutta l’Africa è grande come Cina, India, Europa, Stati Uniti, Messico e Giappone messi insieme. Sembra incredibile, ma è così. L’Africa è piccola solo nella nostra testa. E il fatto che la nostra percezione delle sue reali dimensioni sia totalmente distorta, spiega meglio di tante parole il pensiero di Mark Monmonier, autore di 'How to lie with Maps' ('Come mentire con le carte geografiche') secondo cui certe rappresentazioni cartografiche sono una palese falsificazione della realtà. In effetti, possono essere strumenti per messaggi geopolitici a dir poco inquietanti, come lo spostamento dei confini tra uno Stato e l’altro, per non parlare dell’ingrandimento o la riduzione, dunque della manipolazione, dal punto di vista della rappresentazione, di un territorio abitato da un particolare gruppo etnico. Non è un mistero che le distorsioni cartografiche siano state utilizzate, da non poche cancellerie, con molta disinvoltura, per raccontare il mondo dal punto di vista dei vincitori.
Il vero problema, comunque, sta nel fatto che l’Africa, contrariamente a quanto è avvenuto in Europa nel corso degli ultimi 2000 anni, ha una configurazione geopolitica relativamente recente, ereditata dal Congresso di Berlino (1884-1885) quando, le ex potenze coloniali diedero il via ad una regolamentazione del commercio europeo in Africa centro-occidentale, nelle aree dei fiumi Congo e Niger, sancendo, peraltro, la nascita dello Stato Libero del Congo sotto l’influenza di Leopoldo II del Belgio. Tuttavia il congresso consentì, seppure non vi sia traccia negli atti ufficiali, alle potenze europee di proclamare possedimenti all’interno delle zone costiere occupate. Ciò che portò alla cosiddetta corsa all’Africa. Il presupposto giuridico che le potenze coloniali posero a fondamento del loro agire, fu costituito dalla distinzione che essi riscontrarono fra i Paesi dotati di una sovranità riconosciuta (dagli stessi europei) e quelli invece che ne erano privi e le macro-regioni dell’Africa rientravano naturalmente fra i secondi. L’Africa fu insomma considerata priva di personalità giuridica e così, nel breve volgere di alcuni lustri, venne quasi interamente occupata militarmente dalle potenze europee. Col risultato che gli oltre 800 gruppi etnici che popolano il continente - alla prova dei fatti, vere e proprie nazioni - sono stati parcellizzati all'interno di realtà statuali coloniali disegnate, per così dire, a tavolino. Questa è la ragione per cui in un Paese come l’Uganda tanto per citarne, ad esempio, uno tra i tanti - vi sono gruppi etnici come i Madi, gli Acholi, i Pokot… che in parte sono stanziali sul territorio nazionale, in parte nei Paesi limitrofi. Con il processo di decolonizzazione, a partire dalla seconda metà del ’900, l’impianto è rimasto sostanzialmente lo stesso.
Il compianto intellettuale burkinabé Joseph Ki-Zerbo ha sempre insistito nell'affermare che 'la colpa non è da attribuire all’indipendenza (ndr: degli Stati africani), ma alla fallita decolonizzazione. L’oppressione e il dominio esercitati dall'Occidente sull’Africa non sono cessati con la proclamazione delle indipendenze. Il neocolonialismo non è che un’altra forma di dominio mantenuta anche attraverso la conservazione delle frontiere ereditate dal periodo coloniale'. Ecco perché Ki-Zerbo riteneva che le frontiere dell’Africa dovessero essere 'ridisegnate, con una decisione coraggiosa che i padri fondatori dell’Organizzazione dell’unità africana (Oua) non hanno avuto la lungimiranza di prendere a suo tempo'. In effetti, quando nacque l’Oua, nel 1963, i leader africani stabilirono due presupposti politici: il principio di 'non ingerenza' negli affari interni dei singoli Stati e 'l’intangibilità delle frontiere'. Riguardo alla non ingerenza, la nascita dell’Unione Africana (2002) ha certamente rappresentato un superamento, almeno in linea di principio, di questo assioma, mentre sulla questione dei confini l’orientamento è sempre incentrato sul mantenimento della geografia coloniale. Eppure, la secessione prima dell’Eritrea dall’Etiopia (1993), come anche quella del Sud Sudan dal Nord Sudan (2011) costituiscono, di fatto, un precedente che potrebbe precludere a nuovi assetti.
Sono anni, infatti, che nei circoli diplomatici accreditati nelle varie capitali africane, si guarda con preoccupazione alle mire espansionistiche del Ruanda e dell’Uganda nei confronti della Repubblica democratica del Congo. Lo stesso timore riguarda le regioni settentrionali della Nigeria, a maggioranza islamica, dove da oltre 15 anni è in vigore la sharìa, la legge islamica. A ciò si aggiunga la crisi somala segnata da divisioni interne e dall’incapacità del governo centrale di Mogadiscio di estendere lo stato di diritto sul proprio territorio nazionale. Il fatto che il Somaliland abbia dichiarato nel maggio del 1991, a seguito della caduta del regime di Siad Barre, la propria indipendenza dal resto della Somalia (non internazionalmente riconosciuta) la dice lunga. E cosa dire dell’implosione della Libia con l’uscita di scena del regime di Gheddafi e delle tensioni nella regione etiopica dell’Oromia? Lo storico del Congo- Brazzaville, Théophile Obenga, ritiene che l’unità politica sia 'una condizione necessaria per avviare un decollo decisivo dell’Africa dal punto di vista economico'.
Questo in sostanza significa che forse oggi il vero antidoto consista proprio nel realizzare i sogni e le attese dei grandi fautori del panafricanesimo, presidenti del calibro di Kwame N’krumah (Ghana) o Léopold Sédar Senghor (Senegal). Purtroppo negli anni ’60 quella visione, all’insegna della négritude, naufragò ma potrebbe essere, un modo, rafforzando l’Unione Africana, per consolidare il sentimento di appartenenza a culture omogenee e una coesione sociale che la globalizzazione ha negato. Sebbene sia difficile prevedere i futuri assetti geopolitici e territoriali dei singoli Stati, è evidente che le politiche predatorie straniere nei confronti delle immense ricchezze del continente, come anche lo strapotere delle oligarchie autoctone potrebbero innescare violente turbolenze, acuendo la mobilità umana. Motivo per cui occorre investire maggiormente sulla crescita della società civile africana, variegata galassia di associazioni, movimenti e chiese, in grado di promuovere l’agognata integrazione sognata dai padri del panafricanesimo.