La maratona finale è iniziata il 18 novembre: una settimana di colloqui diplomatici a Vienna fra i rappresentanti dell’Iran e dei P5+1 (i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania) per raggiungere entro la scadenza del 24 un accordo definitivo sul programma nucleare iraniano (da ieri sera al tavolo anche il segretario di Stato Usa, Kerry). Un tema che è oggetto di trattative, sfide e minacce di intervento militare ormai da più di dodici anni, allorché nel 2002 vi furono le prime rivelazioni sulle ricerche nucleari di Teheran. Da allora è cambiata l’intera fisionomia del Medio Oriente, e sono scomparsi molti dei protagonisti di quel periodo, ma i timori circa le reali finalità del programma di non si sono mai sopiti. Lo scorso anno, proprio alla fine di novembre, a Ginevra vi era stato un accordo temporaneo, con l’obiettivo di giungere nel 2014 alla definitiva risoluzione del problema. Un anno tuttavia non è bastato ad appianare tutte le divergenze, complici anche i gruppi di pressione che – in entrambi i campi – lavorano per far fallire, come sempre avvenuto, ogni intesa.
Lo sforzo dell’Iran in campo nucleare è troppo complesso per essere qui riassunto completamente, così come per specialisti sono le soluzioni tecniche via via escogitate durante i negoziati per raggiungere un compromesso onorevole fra le parti. In buona sostanza, le difficoltà maggiori non sono nella trasformazione e nel controllo dell’uranio già debolmente arricchito dagli iraniani (che potrebbe essere la base di partenza per ottenere uranio altamente arricchito, utilizzabile a fini militari): su questo punto Teheran è disposta a compiere i passi necessari. Il problema sta nel riconoscimento del diritto ad arricchire autonomamente a fini civili e medicali l’uranio, ossia a mantenere parte degli impianti di centrifughe per l’arricchimento anche dopo un accordo finale, a garanzia della propria indipendenza tecnologica e per salvare parte degli enormi investimenti fatti. Tuttavia, l’Occidente teme che, concedendo troppo su questo tema, si possa far riemergere le preoccupazioni in futuro: più centrifughe si hanno – soprattutto se tecnologicamente avanzate – e meno tempo occorre per arrivare a produrre l’uranio altamente arricchito. Trovare un punto di accordo è estremamente difficile. Così come è arduo intendersi sulla cancellazione delle pesantissime sanzioni commerciali, tecnologiche, economiche e finanziare imposte al Paese. Sanzioni che hanno colpito duramente l’economia iraniana. Non al punto da farla crollare, ma certo provocando un peggioramento nella vita quotidiana nella popolazione, alle prese con prezzi in forte ascesa, mancanza di medicinali e mercato nero, mentre per le aziende iraniane è divenuto complicatissimo e più oneroso comprare e vendere all’estero. Teheran vorrebbe che le sanzioni venissero ritirate contestualmente alla firma dell’accordo. I Paesi occidentali preferiscono un processo graduale, in particolare per quelle Onu (dato che sarebbe quasi impossibile farle approvare nuovamente dal Consiglio di Sicurezza in caso di altra crisi, viste le nostre tempestose relazioni con la Russia). Con la buona volontà, non sarebbe in realtà così arduo trovare un accomodamento anche su questo punto. Ma entrambi i team negoziali devono fronteggiare non solo la propria controparte, ma anche – e soprattutto – difendersi dalle critiche e dai colpi bassi che provengono dal proprio campo. Fosse per i due presidenti, Obama e Rohani, l’accordo sarebbe già pronto. Entrambi hanno gettato tutto il loro peso e le loro energie per arrivare al successo. I loro team di negoziatori – e in particolare il segretario di Stato, Kerry, e il ministro degli Esteri, Zarif, sono ancora più collaborativi. Del resto, come è stato fatto notare, nel governo iraniano siedono più membri con un dottorato di ricerca preso negli Stati Uniti (o in Gran Bretagna) che nello stesso governo americano: si tratta di uomini che conoscono (e stimano) l’Occidente. Purtroppo, entrambi i presidenti devono fare i conti con chi si oppone all’idea stessa di un accordo con il 'nemico'. In Iran, la Guida suprema (rahbar), ayatollah Ali Khamenei, continua a sostenere il governo e a tenere a freno gli ultraradicali, nella speranza di ottenere un allentamento delle sanzioni, ma non manca di rimarcare la propria sfiducia verso il detestato Occidente e i propri dubbi sulla volontà che Washington voglia effettivamente raggiungere un accordo.
Ancora più scettici i conservatori più radicali, per cui il nucleare è solo un pretesto per cercare di abbattere la Repubblica islamica: mostrarsi concilianti (che a loro avviso significa deboli) serve solo a rendere più forti gli attacchi contro il Paese. Problemi simili li affronta anche la Casa Bianca, che ha recentemente perduto il controllo del Senato (la Camera era già nelle mani dei repubblicani) e che deve fronteggiare un’opposizione durissima da parte di chi crede che un 'cattivo accordo' con l’Iran sia peggio di nessun accordo. Solo che per molti parlamentari – soprattutto quelli più attenti ai timori di Israele – ogni accordo con l’Iran è 'cattivo', dato che sognano ancora il cambio di regime e l’isolamento totale di Paese. Anche dalla regione mediorientale non viene alcun aiuto: gli alleati degli Stati Uniti, siano Israele o le monarchie del Golfo, sono ossessivamente anti-iraniani e contrari a ogni tipo di accordo che non preveda l’umiliazione di Teheran e il blocco totale di ogni attività nucleare. Ma a pesare sulla bilancia, a favore di un risultato positivo, vi è il deterioramento della situazione regionale. L’esplosione di Is e delle violenze jihadiste sunnite hanno rafforzato il ruolo geopolitico dell’Iran e fatto di Teheran un alleato inevitabile per l’Occidente, in particolare in Iraq, ove le milizie sciite e i pasdaran affiancano i peshmerga curdi e il governo di Baghdad. La minaccia jihadista ha indebolito il fronte anti-Damasco e mostrato l’ambiguità e la pericolosità delle politiche regionali di Turchia, Qatar e Arabia Saudita. Di fatto, americani e iraniani collaborano – pur senza ammetterlo – a livello tattico. È evidente che un accordo permanente sul nucleare aprirebbe la strada per la riduzione della 'eccezionalità' iraniana e per una progressiva normalizzazione dei rapporti con l’Occidente e con gli stessi Stati Uniti. Un elemento che potrebbe far ripensare l’intera architettura politica e di sicurezza mediorientale. Ma è proprio questa normalizzazione a essere vista con timore da troppi attori e da troppe fazioni presenti in tutte le parti in causa. Perché essa richiede come primo passo la capacità di superare decenni di diffidenza e di rancore: senza questa 'fiducia' politica nessun accordo è sostenibile. L’ostacolo maggiore da superare in questi giorni, allora, non risiede nelle differenze sugli aspetti tecnici, ma sulla capacità dei due presidenti di convincere il proprio campo che un accordo, magari anche solo parziale e non definitivo, sia meglio di nessun accordo. E che un Iran più integrato nella comunità internazionale rappresenti un beneficio per tutti, in primis per quei riformisti e i moderati che in Iran cercano di attenuare le durezze repressive del proprio regime.