Opinioni

Il direttore risponde. Interviste anonime pro-eutanasia: l’orrore, il dubbio e una certezza

Marco Tarquinio venerdì 27 febbraio 2015
Caro direttore,sul giornale “Repubblica” il 25 febbraio è apparso un articolo, intitolato «Così stacco la spina ai malati senza speranze» che mi spinge a diverse riflessioni. L’articolo, non chiarendo le condizioni dei pazienti, non chiarisce nemmeno se si tratti di eutanasia o di astensione dall’accanimento terapeutico... L’intervistato sostiene, poi, di aver assistito a 30-40 casi di eutanasia silenziosa presso il grande ospedale fiorentino in cui lavora. Poiché in Italia uccidere un malato è considerato a tutti gli effetti un reato, i casi sono due. Se l’infermiere in questione, che dice di agire «per carità cristiana», materialmente e segretamente “staccasse la spina”, si renderebbe autore di un omicidio perseguibile a termini di legge. Se invece non fosse lui l’autore, ma comunque assistesse inerte a tali operazioni, sarebbe da considerare complice di un omicida o almeno reo di favoreggiamento. Due ultime osservazioni. Poiché non deve essere difficile per le forze dell’ordine individuare uno che dice di essere «caposala» al Careggi di Firenze (quanti caposala ci saranno mai?) e che sostiene di essere co-autore di reato, mi chiedo se verrà arrestato. L’anonimo caposala, sempre secondo il giornale che pubblica l’articolo, invocherebbe una “morte degna” in condizioni dignitose. Ma perché non fa un discorso più serio sulla necessità di diffondere maggiormente le cure palliative? A tal proposito aggiungo che si insinua un dubbio più sottile: mantenendo l’anonimato, chiunque potrebbe sostenere di essere un caposala del Careggi…. A parte questo, sarebbe bene chiedersi: davvero ogni anno decine di malati in stato di incoscienza vengono soppressi «per evitare di farli soffrire»? Fa una certa impressione sentir dire che si tratta di una pratica diffusa. Se lo fosse davvero, sarebbe per il bene dei malati? Oppure per ragioni puramente economiche? Certo costa tenere in vita un malato terminale. Ma sono soldi bene spesi, dal primo all’ultimo. O dobbiamo accettare passivamente che sulla pelle di chi è gravemente malato venga attuata una pratica di eliminazione fisica, frutto della spending review? Sono cattolico anch’io, come dice di sé l’infermiere  sbandierato da “Repubblica”, e spero ancora che quando sarò molto malato, andando in ospedale, nessuno vorrà sopprimermi…Carlo Santoro, RomaIl genere dell’intervista anonima non mi è mai piaciuto e non mi convince, caro signor Santoro. Per questo non l’ho mai praticato e, da direttore, in genere, boccio ogni proposta in tal senso. Prima di tutto, come anche lei sottolinea, perché una persona “senza volto” può essere modellata a piacimento e le si può far dire ciò che fa più comodo all’intervistatore. Per nascondere l’identità di un intervistato, insomma, deve esserci un motivo di eccezionale rilevanza morale. Nel caso delle affermazioni riportate nell’articolo che lei cita, la rilevanza e la gravità sono di genere opposto a quello che io ho in mente. Il caso del (vero o falso?) «caposala del Careggi di Firenze» somiglia, infatti, maledettamente a quello di altri personaggi – medici e infermieri – che sono stati definiti “mostri” e che in mezzo mondo hanno subìto condanne perché si dedicavano a pratiche omicide, togliendo di mezzo persone da loro giudicate indegne di vivere a causa di malattia o disabilità. Tutto questo è semplicemente raccapricciante. Ed è il vero volto della tanto edulcorata e propagandata “eutanasia”. Comunque, se vuol conoscere il mio parere di non più giovane cronista, la storia non mi quadra e non penso che sia attendibile. Un «infermiere laureato» non confonde, come lei nota, eutanasia e rifiuto dell’accanimento terapeutico. Un infermiere laureato non definisce una persona seriamente disabile, quale era Eluana Englaro, una «malata». Un infermiere laureato non definisce «vegetale» una persona in stato di minima coscienza. Mi colpisce, inoltre, che alcune argomentazioni sembrino prese di peso dalla propaganda delle lobby che promuovono la «morte a comando» come servizio statale. I lineamenti dell’intervistato sembrano, insomma, disegnati a misura della tesi che si vuol sostenere. Mi si metta di fronte a un nome e a fatti verificabili e cambierò opinione. Immagino, però, che all’Ospedale di Careggi – descritto come mattatoio a richiesta di inermi malati – ci si stia attrezzando per rispondere sul piano mediatico e non solo ad accuse così pesanti (e, per intanto, prendo nota della molto politica e poco decisa smentita dell’assessore regionale toscano alla Sanità). Coraggio, caro amico, purtroppo – soprattutto in tempi di “tagli” alla spesa sanitaria – dobbiamo cominciare a preoccuparci non di essere curati troppo e di essere accompagnati con tutte le giuste pratiche palliative nell’ultimo tratto della nostra vita terrena, ma di certe logiche (ragionieristiche e niente affatto mediche) che il popolo chiamava e ancora chiama “spiccialetto”. C’è da scongiurare l’accanimento terapeutico, ma ancor di più l’abbandono terapeutico. Ed è proprio su questo, non sull’eutanasia , che si giudica l’efficacia scientifica, la qualità umana e il grado di civiltà di una società e del servizio sanitario reso ai cittadini.