A quasi due mesi dalle elezioni e dal flop della lista capitanata da Antonio Ingroia, è possibile tornare a ragionare, con serenità, sui rapporti tra indagini giudiziarie, ruolo dei magistrati e politica. Tema di sempre, se è vero che già Kant, in "Che cos’è l’illuminismo", rivendicava, anche per i funzionari dello Stato, il «fare uso del proprio intelletto» per contribuire a formulare proposte di miglioramento delle leggi e del funzionamento dell’amministrazione. Tema che però, negli ultimi decenni, con il maggior protagonismo del potere giudiziario, ha assunto contorni e risvolti nuovi, che soltanto un cieco può negare. Che la politica possa ricorrere alle conoscenze tecniche di un magistrato, anche investendolo di nuovi ruoli istituzionali è cosa che, in passato, appariva del tutto naturale. E che fu sempre praticata, sin dal tempo del Regno dei Savoia.Furono magistrati e poi ministri Riccardo Sineo, Giuseppe Barbaroux, Giuseppe Siccardi. E, passando alla Repubblica, vengono in mente nomi come Oscar Luigi Scalfaro, Luciano Violante, Cesare Terranova, Claudio Vitalone, Salvatore Mannuzzu, Pierluigi Onorato, Salvatore Senese, Elena Paciotti: tutti magistrati che sono poi stati politici in diversi schieramenti. Ma a metà degli anni 90 succede qualcosa di nuovo. Non è più la politica ad attingere alle capacità specialistiche di alcuni magistrati, attraendoli nel proprio campo. Con la cosiddetta Seconda Repubblica accade che magistrati (sempre pubblici ministeri) che, gestendo indagini importanti e clamorose, hanno acquisito, con un sapiente utilizzo dei mass media, una notevole popolarità, a un certo punto investano questa popolarità per raccogliere consensi nel campo della politica. Addirittura fondando partiti personali o liste che portano il loro nome. Questo non era mai successo prima. E pone nuove domande.Personalmente, non penso che si possa contestare il diritto di un magistrato a scegliere la politica, purché, come ha scritto il direttore di questo giornale rispondendo a un lettore l’11 aprile scorso, la scelta sia netta e non si pretenda di «tenere un piede in entrambi i mondi». Ma la storia degli ultimi venti anni ci impone un’ulteriore considerazione, a monte di questa scelta. Investire in politica il patrimonio di popolarità acquisito esercitando l’azione penale (quel «potere terribile» che decide della libertà ed è dunque in grado di cambiare la vita di una persona) non segna forse un’interferenza tra i due piani? Un’interferenza che urta contro la rivendicazione (cara ai magistrati) di una legittimazione del potere giudiziario fondata sulla legge. E rischia di ledere, al contempo, l’indipendenza della magistratura – un bene che non appartiene ai magistrati, ma all’intera collettività, perché è uno dei presupposti per l’effettività del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge – e l’autonomia della politica. Un’interferenza che – come ci ammonisce Luigi Ferrajoli – rischia di creare una pericolosa «miscela di populismo politico e populismo giudiziario», diffonde il «sospetto di una strumentalizzazione politica della giustizia» e, alla fine, «compromette la credibilità della magistratura, oltre che delle stesse inchieste che hanno reso noti quei magistrati».Per questo sono necessarie nuove e stabili regole, da tempo invocate dagli stessi magistrati: quali la non candidabilità nel luogo in cui il magistrato ha esercitato le funzioni e l’esclusione del suo rientro in tale luogo al termine del suo mandato. Ed è ancor più importante che tali regole si fondino su un comune patrimonio culturale, frutto di una riflessione di tutti i cittadini, capace di imparare dagli errori del passato per meglio guardare al nostro futuro.