Opinioni

L'operazione di pace richiede anche risposte militari. Insorti sempre più aggressivi I nostri soldati nella morsa afghana

Riccardo Redaelli sabato 30 maggio 2009
Era chiaro che la situazione a Bala Murgab, nella provincia di Baghdis, si andava da tempo deteriorando, dato che già nei mesi scorsi gruppi di taleban avevano inflitto perdite pesanti all’esercito regolare afghano e si erano moltiplicati gli scontri. Anche per questo è stata decisa un’operazione congiunta contro gli insorti, nel corso della quale si sono contati tre paracadutisti italiani feriti (per fortuna in modo non troppo grave) oltre a diversi morti, feriti e dispersi nelle file dell’esercito locale. Ed è solo grazie all’intervento dei nostri militari, alla loro professionalità e al loro coraggio che questa complessa operazione sul campo non ha provocato perdite maggiori fra gli afghani, riuscendo nel contempo a colpire duramente le milizie degli insorti. È comunque evidente che il peggioramento dello scenario di sicurezza in quella provincia riflette i problemi complessivi della missione Nato in Afghanistan: Baghdis non è un’area a maggioranza pashtun (il gruppo etnico da cui provengono i taleban), ma a maggioranza tajika – un’etnia molto più favorevole al governo centrale di Kabul – vicina al Turkmenistan e all’Iran. Il fatto che insorti e jihadisti conducano nella regione azioni ostili non sporadiche, ma che dimostrano organizzazione e coordinamento (riuscendo addirittura a catturare soldati regolari), non può non preoccupare i nostri vertici militari, che guidano le forze dell’Alleanza atlantica nel settore Ovest del Paese. Non casualmente l’Italia considera cruciale coinvolgere stabilmente l’Iran nella lotta ai taleban in Afghanistan: la regione di Herat (ove abbiamo il nostro comando) è un’area di influenza storica iraniana, nella quale l’aiuto di Teheran può essere significativo. Ad ogni modo, dover contrastare i sempre più aggressivi gruppi di insorti presenti nel nostro settore, fronteggiando attacchi, attentati suicidi e assalti ai convogli, significa ridurre ulteriormente l’attività di ricostruzione e di soccorso alla popolazione locale. Uno degli obiettivi considerati fondamentali per stabilizzare in modo duraturo l’Afghanistan e per aumentarne l’autonomia dall’aiuto esterno. Nel contempo, ciò significa enfatizzare i compiti più prettamente militari affidati al nostro contingente. Rispetto alle prime fasi della missione internazionale per il mantenimento della pace in Afghanistan (l’Isaf ), vi è stato un evidente 'scivolamento' verso un crescente coinvolgimento in scontri sempre meno estemporanei. Sono aumentati i pericoli e gli attacchi, è cresciuta l’esposizione dei nostri soldati, si sono rese necessarie azioni congiunte e pianificate di bonifica del territorio e di lotta agli insorti. Come richiesto con insistenza dai comandi Nato, sono stati ridotti da parte del nostro governo i cosiddetti 'caveat', ossia le limitazioni all’utilizzo dei soldati del contingente in operazioni prettamente di combattimento. Si è formato un battle group con un supporto aereo rafforzato per meglio fronteggiare i nuovi scenari sul campo. Del resto, l’Amministrazione Obama ha subito sollecitato l’Europa a impegnarsi nel Paese, con più truppe, mezzi e regole d’ingaggio maggiormente 'aggressive', mentre aumentano le truppe statunitensi. Per indebolire i taleban sono state intensificate le operazioni aeree, che hanno tragicamente accresciuto il numero di vittime fra la popolazione civile, e che rischiano di minare l’appoggio interno e internazionale alla nostra presenza. Quest’anno inoltre si vota in Afghanistan per il presidente (che sarà probabilmente ancora Hamid Karzai) e la coalizione vuole stabilizzare il più possibile la situazione nelle province periferiche. Al quartier generale Nato di Bruxelles si viene inondati da opuscoli e dvd che mostrano il sostegno dato ai bambini afghani, le nuove scuole e i nuovi ospedali costruiti, gli aiuti distribuiti. Ma nella loro 'missione di pace' i nostri soldati, di fronte all’aggressività dei taleban, si trovano a dover sparare sempre di più.