Benedetto XVI ha molto cari i Magi. L’Epifania è per lui negli anni l’occasione di tornare a parlare con passione di quei re d’Oriente in marcia, da terre lontane, obbedienti al segno di una stella: segno riconoscibile a una sapienza di astronomi, ma, certo, appena intuito, e non ancora dimostrato né certo. Cui pure i tre si tennero fedeli, come splendidamente racconta quella poesia di Eliot che dice del duro inverno in cui i tre intrapresero il cammino; del fango, dei cammelli sfiniti e indocili, e anche della umana nostalgia delle dimore lasciate. E ancora, narra Eliot, i cammellieri che imprecavano, e pretendevano donne, e liquori; e i fuochi che nella notte fredda si spegnevano, e i paesi ostili: «Infine preferimmo viaggiare di notte,/ dormendo di quando in quando,/ con le voci che ci cantavano nelle orecchie/ dicendo che questo era tutta follia».Anche quest’anno Benedetto XVI sembra tornare con personale immedesimazione a quel peregrinare da terre lontane, suscitato da una speranza, da un segno, che pure non era probabile né provato. E tuttavia i Magi, uomini dal cuore inquieto, hanno dovuto mettersi in cammino: non paghi della ricchezza, né della posizione sociale, e nemmeno della propria sapienza. Costretti da una sete più grande. «Non volevano soltanto sapere tante cose. Volevano sapere l’essenziale», ha detto Benedetto, rivolto ai quattro nuovi vescovi – ma, in fondo, non anche a tutti noi? Se l’elogio di questa inquietudine di timbro agostiniano è il primo filo forte dell’omelia, e un tema caro a un Papa che in quella domanda inesausta pare riconoscere la trama della sua vita, c’è però un secondo filo, altrettanto teso, ed è quello del coraggio. Ci voleva coraggio, per andare verso l’ignoto solo sulla base di un misterioso segno di stelle. E certo si può immaginare che attorno alle sontuose corti in cui fervevano i preparativi per la partenza i ragionevoli, i benpensanti fra loro nascostamente ridessero: di quell’ansia di andare, a cercar cosa? Un bambino, figurarsi; un Re, e di quale regno? «Ma la ricerca della verità era per i Magi più importante della derisione del mondo, apparentemente intelligente», ha detto il Papa. Avvertendo che la sfida permane, e l’umiltà della fede confligge ancora con la cultura dominante «di chi si attiene a ciò che apparentemente è sicuro». Ed è la quotidianità nostra questa, è il divario fra chi pretende che il reale sia solo ciò che si può misurare e sperimentare, e chi invece lo avverte tanto più grande, tanto sopravanzante la nostra umana conoscenza. È il salto fra chi in un embrione vede solo quattro cellule di cui disporre come di cose, e chi invece già vi riconosce il destino di un uomo. Di modo che quei tre re che oggi mettiamo via con il presepe sono figure fondanti di un’umanità autenticamente cristiana. Non li abbiamo forse noi stessi in qualche modo ridotti, infantilmente immaginandoli in tranquillo cammino verso un già riconosciuto e osannato salvatore? Tutto invece era così incerto e oscuro in quel viaggio, e tanto più facile sarebbe stato restare tranquilli a casa. E poi quella voce, che nella notte insinuava: follia, soltanto, è stata follia il partire. Non li conosciamo anche noi questi dubbi, noi poveri cristiani in questo giovane anno 2013? L’inquietudine e il coraggio che il Papa domanda ai suoi vescovi, riguarda anche noi. È lo splendente animo del
vir desideriorum del Libro del profeta Daniele, che Benedetto XVI cita nel
Gesù di Nazaret: la tensione interiore di chi «non si accontenta della realtà esistente e non soffoca l’ inquietudine del cuore, quell’inquietudine che rimanda l’uomo a qualcosa di più grande». È il coraggio di mantenersi tenacemente dentro una ragione tanto grande, da ammettere che qualcosa la supera. Di proseguire come quei tre, per strade ignote e nel buio; gettandosi all’alba alle spalle le voci della notte, che sussurravano: questa è solo follia.