Opinioni

Il ruolo di Angela Merkel per uscire dalla crisi. I tanti «no» tedeschi tra miopia e gioco al rialzo

Giorgio Ferrari giovedì 1 dicembre 2011
«Angela Merkel ci sta facendo correre verso la catastrofe». Non è un banchiere preoccupato né un disincantato funzionario europeo e nemmeno un euroscettico di professione ad aver pronunciato queste parole, bensì il presidente francese Nicolas Sarkozy a conclusione del vertice trilaterale fra Francia, Germania e Italia che si è svolto la settimana scorsa a Strasburgo e che Le Canard Enchainé ha maliziosamente reso pubbliche. Ma non occorreva il foglio satirico francese per rendersi conto della pericolosa e per certi versi inspiegabile deriva che la cancelliera Merkel ha imboccato. I suoi 'nein' ripetuti come mantra risuonano cupi come epicedi nei corridoi dell’Eurozona, la loro eco martellante prende alla gola banche, assicurazioni, imprese, operatori finanziari, l’ostinata ripetitività del suo perpetuo negare ogni soccorso all’ormai fragile edificio dell’euro ha assunto da giorni il timbro di una campana a morto: no agli eurobond, no alla Bce come Lender of last resort (letteralmente: 'prestatore di ultima istanza'), no ai prestiti senza garanzie alla Grecia che boccheggia in prossimità del default, e soprattutto un 'nein' rivolto a Francoforte e a quell’Eurotower in cui risiede la Banca Centrale Europea, alla quale la signora Merkel non ammette di concedere poteri più ampi che non quelli statutari, ossia la sorveglianza sulla stabilità dei prezzi. Intanto la casa europea brucia e l’unico che può davvero spegnere l’incendio – la Germania di Angela Merkel – resta immobile. Sembra quasi ci sia del metodo in questa follia, un qualcosa che forse – volendola nobilitare – affonda nelle segrete radici della cultura germanica, nel puro folle Parsifal come nella Margherita del Faust goethiano, che agisce e fa agire in quella sonnambulica insapienza che va contro ogni regola e ogni buon senso. Ma noi francamente fatichiamo ad attribuire alla signora Merkel orizzonti così alati. Piuttosto, le sue scelte (e soprattutto le non-scelte) ci paiono il risultato di un calcolo da un lato e di una grave miopia dall’altro. Il calcolo, non è difficile svelarlo, è di natura squisitamente contabile e, di conseguenza, elettorale: fiocinata da ripetute sconfitte nei Laender dove sinora si è votato, la cancelliera deve assecondare il diffuso sentimento di paura che assedia la fortezza germanica; la paura di spezzare quella supremazia monetaria (sì, monetaria, perché dietro all’euro il tedesco rimpiange e intravvede ancora il marco, re delle valute europee fino a dieci anni fa), quella preminenza mondiale negli scambi commerciali, quell’orgoglioso faro nelle tenebre dei debiti pubblici internazionali costituito dal suo Bund, al cui differenziale tutti, anche una Francia che si sforza di restare aggrappata al ricordo della propria grandeur, sono indotti a rapportarsi, come se quel Bund, quel punto zero immobile nella sua alterigia fosse il centro tolemaico dell’universo. Ma insieme alla paura convive nella Merkel anche una miopia perniciosa, principalmente assecondata – ma diciamo pure asservita – a un altro dei grandi delusi dell’euro, quella Bundesbank che nella Bce ha da subito individuato un possibile dissipatore delle fortune tedesche, un amico infido delle finanze allegre dell’Europa del Sud. Miopia che impedisce alla Merkel di guardare con lucidità cosa sta accadendo al di là del Reno consentendole di contemplare solo ciò che avviene dentro le mura di casa. Un po’ poco per l’erede di una visione dell’Europa – quella dei padri fondatori e che si è spenta con il crepuscolo di Kohl e Mitterrand – che guardava non solo al passato carolingio ma anche al futuro comunitario. Rattrappita nell’imperativo categorico di proteggere prima di tutto la propria soglia di casa, Angela Merkel – forse ostaggio della propria non felicissima infanzia nella Ddr – rischia di essere ricordata come corresponsabile del collasso dell’euro e del disfacimento progressivo della casa europea. Sulle cui macerie potrà forse torreggiare una Germania 'vittoriosa' sulle economie più deboli o, più probabilmente, solo un alto castello diroccato. A meno che – ed è l’ultima speranza – non sia stata soltanto una tattica per alzare fino all’ultimo il prezzo.