Il direttore risponde. Ingratitudine di un figlio, il dolore più grande
Vincenzo Noto direttore della Caritas di Monreale (Pa)
È un racconto davvero agghiacciante il suo, caro don Vincenzo, eppure non stupisce. Credo che ciascuno, nel giro delle proprie conoscenze o per la frequentazione di qualche reparto ospedaliero di lungodegenza o una di casa di riposo, abbia ascoltato confessioni sconfortate di abbandono, ingratitudine, attenzioni finalizzate solo all’interesse più bieco e vile proprio perché perseguito tradendo gli affetti più cari. Quella povera madre subisce la prova più atroce che possa capitare a un genitore, sperimenta « qual dolore tagliente, più del morso d’un serpente sia un ingrato figlio » ( W. Shakespeare, « Re Lear » , 1,4). Cosa può indurre tanta grettezza, insensibilità, cattiveria? Certo, il riferimento al grande scrittore inglese del ’ 500 dimostra come non siamo di fronte a un fenomeno tutto e solo moderno, ma le dimensioni oggi toccate paiono di dimensioni inusitate, forse anche per il riverbero che ottengono dai media i frequenti esiti drammatici. E colpisce il fatto che l’episodio da lei raccontato accada in una terra nella quale i legami di sangue sono sempre stati considerati tenacissimi, caratterizzati da una « sacralità » assoluta, indiscutibile... Sono convinto al pari suo, che chi arriva a tali bassezze sia già pronto per qualsiasi altra infamia e anche per il crimine. Non vedo difesa verso questi comportamenti: si può solo cercare di prevenire, facendo del nostro meglio sul terreno educativo e della testimonianza perché risalti che la « vita buona » non è cosa solo per « anime belle » non capaci di reggere la durezza del mondo, ma l’unica via in grado di procurare serenità e appagamento anche nelle avversità.