Un caso, le ombre, il problema di tutti. L'ingiusto groviglio
Venticinque milioni di euro è una somma che, solo a leggerla, induce spavento nel comune mortale. Se poi la cifra è riportata su una cartella esattoriale di Equitalia, lo spavento del comune mortale destinatario della stessa si trasformerà in terrore. Se, ancora, la cartella non viene nemmeno recapitata e il comune mortale apprende del suo enorme "debito" con l’Agenzia delle dogane e dei monopoli di Bari solo nel momento in cui la sua prima (e unica) casa rischia di essere venduta all’asta, il malcapitato sprofonderà nell’angoscia e nella disperazione. Se, infine, la multa da 4 milioni di lire del 1983, divenuti 25 milioni di euro con gli esosi interessi accumulati in trent’anni, avrebbe dovuto in realtà essere recapitata a un’altra persona... Ecco, adesso possiamo togliere tutti i "se": ciò che sembra fantascienza, infatti, è accaduto (e sta tuttora accadendo) a un cittadino italiano del tempo presente, che ha la sfortuna di avere lo stesso nome e lo stesso cognome di un noto boss del contrabbando di sigarette. Insieme a lui A.M. è stato imputato in un processo penale e al suo posto – questo almeno è quanto denuncia – sta rischiando di perdere l’appartamento che in realtà è ancora della banca presso la quale ha acceso un mutuo. La storia è documentata nel giornale e, speriamo, si concluderà con il chiarimento del macroscopico equivoco, se – come appare – di equivoco si è trattato.
In queste poche righe intendiamo tuttavia interrogarci su come sia possibile arrivare a tanto. Sarebbe facile, fin troppo, prendersela con la "solita" Equitalia, che in questo caso avrebbe comunque la responsabilità di non aver notificato la cartella esattoriale ad A.M., cioè né al vero boss né all’operaio cassintegrato suo omonimo. Per il resto, però, si è limitata al suo ingrato compito di esattore, al quale la legge consente (ancora per poco, sembra) di rivalersi perfino sulla prima casa del debitore. Il problema vero è diverso, più grande e perciò stesso più preoccupante: si chiama incomunicabilità all’interno della pubblica amministrazione. È lo Stato che non parla con se stesso, come avviene in un organismo malato quando gli impulsi nervosi non raggiungono gli organi che dovrebbero far funzionare. Non sono soltanto la giustizia, i monopoli, il fisco – tutti soggetti pubblici coinvolti in questa vicenda – a non aver dato buona prova della loro efficienza. Nell’epoca delle comunicazioni super-veloci, della digitalizzazione e della posta elettronica certificata non si è stati in grado di individuare, segnalare e chiarire l’errore o, al contrario, dimostrare che non esiste alcun errore. Incrociare i dati, si dice con un’espressione molto in voga. Ma a contare sono i fatti, non le parole. E i fatti raccontano che A.M. si è dovuto rivolgere a un avvocato per cercare di sbrogliare la matassa. Se è nel giusto gli auguriamo di recuperare almeno le spese legali, perché al danno non si aggiunga la beffa. Se nel giusto non è, c’è da chiedersi come si sia venuto a creare un tale groviglio di carte da rendere indistinguibile un colpevole da una vittima. Nel frattempo sono trascorsi trent’anni e l’incapacità di "incrociare i dati" non ha avuto solo ripercussioni dirette sulla vita di un italiano, ma anche indirette sul resto della popolazione, perché l’inefficienza costa. Non crediamo di sbagliare se affermiamo che i soldi spesi fin qui dalla macchina pubblica sono ben più dei 4 milioni di lire (circa 2mila euro) della sanzione originaria. C’è poi un conto anche più salato, perché credibilità e fiducia non sono merci che si trovano a buon mercato: comunque andrà a finire, lo Stato – il nostro Stato – uscirà sconfitto, in quanto ancora una volta si è dimostrato distante dai cittadini, dando di sé l’immagine del Leviatano burocratico da temere anziché della Res Publica in cui confidare. La metamorfosi del "mostro" dovrebbe essere il senso profondo delle riforme istituzionali che faticosamente stanno partendo, se non si vuole ridurle a mero esercizio di ingegneria costituzionale.