Opinioni

Più grandi della colpa/15. Infinita è l'arte dell'abbraccio

Luigino Bruni domenica 29 aprile 2018

«Dio è l’altro per eccellenza, l’altro in quanto altro, l’assolutamente altro, e tuttavia solo da me dipende l’accordo con questo Dio. Lo strumento del perdono è nelle mie mani. Invece il prossimo, mio fratello, è in certo senso più altro di Dio: per ottenere il suo perdono devo riuscire a ottenere che egli si plachi. E se rifiuta? Essendo in due, tutto è messo a repentaglio. L’altro può rifiutarmi il perdono e lasciarmi per sempre imperdonato».

Emanuel Levinas, Quattro letture talmudiche


Ogni giorno milioni di persone fanno e dicono cose cattive e, poco dopo o poco prima, dicono e fanno sinceramente cose buone. Perché l’intreccio di cattiveria e bontà è semplicemente la condizione umana. La Bibbia conosce molto bene questo mistero ambivalente della persona, forse il mistero più grande. Possiamo incattivirci, smarrirci, perdere il filo d’oro della vita, ma fino all’ultimo fiato siamo ancora capaci di bontà, perché fatti immagine e somiglianza di una danza infinita d’amore reciproco, che nessun peccato riesce a fermare. Caino ha ucciso suo fratello Abele, ma non ha ucciso l’Adam, il primo (e ultimo) uomo. E mentre Caino continua a uccidere Abele, l’Adam continua, testardo, a risorgerlo, ogni giorno. Nessuna cattiveria del fratricida che alberga dentro di noi è capace di distruggere quell’impronta originaria di bene incisa più in profondità nel nostro essere. In questo senso, il male può essere banale, il bene mai. Il male ha una sua resilienza, che può essere anche molto grande, ma è sempre più piccola della resilienza del bene. Ed è questo bene che resiste, testardo, che ci fa più belli delle nostre molte colpe. Sta qui il radicale ottimismo antropologico della Bibbia, che ha salvato l’Occidente dopo e dentro i suoi peccati più efferati – e che continua a salvarci.


Per l’ultimo incontro tra Davide e Saul la Bibbia ci dona un’altra sinfonia. Per raccontarci la consacrazione a re di Saul e il cambiamento del suo cuore, il primo libro di Samuele aveva avuto bisogno di tre racconti. Ora per narrarci la sua uscita di scena il testo ci dona due racconti, simili e diversi. Questa abbondanza e questa eccedenza narrativa dicono la ricchezza di Saul, che continua a fare cattiverie, ma continua anche a pentirsi e a commuoversi, sinceramente. La verità delle cattiverie di Saul non annulla le sue benedizioni e i suoi pentimenti.

Dopo il meraviglioso incontro con Abigail, Davide riprende il suo cammino nomade e fuggiasco. Saputo dove Saul, partito al suo inseguimento, aveva posto l’accampamento, Davide, insieme a un suo compagno (Abisài), si introduce di notte nel campo nemico: «Ed ecco Saul dormiva in un sonno profondo tra i carriaggi, e la sua lancia era infissa a terra presso il suo capo» (1 Samuele 26,7). Davide entra nella sua tenda, arriva al capezzale di Saul, ma prende solo la sua lancia e la brocca d’acqua di Saul, e, non ascoltando di nuovo il consiglio dei compagni, risparmia il suo re.


Saul e il suo esercito dormivano "in un sonno profondo". La parola ebraica tardemà (torpore, sonno profondo) è rara nella Bibbia. La ritroviamo due volte nel libro della Genesi. La prima per dire il sonno diverso nel quale cadde Adamo quando Dio gli tolse una costola per "foggiare" la donna (Genesi 2,21-22). Poi per indicare il torpore di Abramo, quando nella grandissima scena dell’alleanza, Dio nel sonno gli rivela quale sarà il futuro della sua discendenza (15,13). Un torpore teologico, dunque, per segnare due interventi cruciali di Dio in momenti fondativi e decisivi all’origine dei due patti fondamentali: quello tra l’uomo e la donna e quello tra Dio e il suo popolo. Le parole e i verbi nella Bibbia non sono mai scelti a caso – non sarebbe possibile in quell’umanesimo della parola e delle parole. Questo "sonno profondo" ci vuole dire che sta per accadere qualcosa di importante, un atto che segnerà la natura del regno di Davide, la qualità delle sue relazioni. Per la seconda volta Davide poteva uccidere Saul. Poteva farlo, ma non lo ha fatto, ha scelto la vita e rinnovato il patto orizzontale e verticale


Alla radice dei patti fondativi della nostra vita ci sono molti atti, scelte, fatti. Ci sono molte parole, molti "sì", come quelli pronunciati insieme e reciprocamente nel giorno delle nozze, dove è ancora viva l’eredità dell’antica capacità performativa della parola (mentre diciamo quelle parole speciali si crea una realtà nuova, generata dalle nostre parole). Ma, quasi sempre invisibili, ci sono anche molti non-atti, non-fatti, non-parole, azioni che non abbiamo fatto quando avremmo potuto e dovuto farle. Ci sono molti silenzi e parole non dette che hanno salvato vite, onore, dignità. La qualità morale di una vita si misura anche sulla base di atti che non abbiamo fatto e parole che non abbiamo detto, quando il buon senso, gli amici, le norme sociali, la legge e persino la religione ci dicevano invece di fare e dire. Questi "non", che nella grammatica sono avverbi di negazione, nella vita sono verbi che diventano carne nostra e di chi vive con noi.


Questa non-uccisione di Saul è raccontata due volte dalla Bibbia, non solo per parlarci di Saul e farlo parlare per rivelarci quell’angolo rimasto buono e nascosto del suo cuore; questo duplice racconto è anche un linguaggio che la Bibbia usa per dirci con ridondanza generosa chi è Davide. Finora Davide è l’unto, il re "secondo il cuore di Dio", il cantore di salmi, l’amato; ma Davide è anche colui che in due occasioni poteva uccidere il suo padrenemico e non lo ha fatto. Davide è il duplice non-parricida, il doppio non-Edipo, è due volte l’antiZeus.

Davide lascia l’accampamento, si mette a gridare dalla collina di fronte. Saul, diversamente dai suoi soldati, riconosce la voce di Davide: «"È questa la tua voce, Davide, figlio mio?". Rispose Davide: "È la mia voce, o re, mio signore"» (25,17). Saul, dalla sua collina, risponde a Davide: «Ho peccato! Ritorna, Davide, figlio mio!» (25,21). Il padre, l’unto del Signore, riconosce il suo peccato, e implora Davide, "suo figlio", di tornare.


È davvero forte e suggestivo questo racconto del "figliol prodigo all’incontrario". Il figlio, Davide, è stato misericordioso verso il padre, salvandogli la vita. Quella misericordia genera il pentimento del padre, che chiede al figlio di tornare. Non è raro che siano i figli a essere misericordiosi, e i padri e le madri a pentirsi e chiedere al figlio, che avevano ferito e maltrattato, di "tornare". E, tornando, i figli e le figlie rigenerano i genitori, diventano padri e madri dei loro padri e delle loro madri. E come nella parabola di Luca il primo atto sovversivo è quello del padre (che concede l’anticipo e la liquidazione dell’eredità mentre è ancora in vita), qui è il figlio che trasgredisce i codici di guerra e risparmia il suo nemico. Sono queste trasgressioni imprudenti e rischiose che generano e rigenerano veramente padri e figli. Saul riconosce la sua colpa: «Non ti farò più del male, perché la mia vita oggi è stata tanto preziosa ai tuoi occhi. Ho agito da stupido e mi sono completamente ingannato» (25,21). E poi conclude: «Benedetto tu sia, Davide, figlio mio» (25,25). Sono queste le ultime parole di Saul a Davide, parole di benedizione luminose e vere. In quell’ultimo incontro Saul, forse, avrà rivisto il cantore che con la cetra rasserenava il suo cuore, il vincitore di Golia, il giovane puro e bellissimo (come tutti i giovani). Come noi, quando vediamo per l’ultima volta un amico o un figlio e prima di chiudere gli occhi rivediamo il bambino e l’amico bellissimi e puri, come il primo giorno.


Splendidi sono i salmi che la tradizione ha voluto attribuire a Davide. Ma non meno belli e veri sono questi brevi, intensi, sinceri salmi di Saul, che, pur dominato dal suo spirito malvagio, in questi momenti riesce a elevarsi sopra le sue colpe e a intonare versi di benedizione. Noi lettori sappiamo che questi canti di Saul sono temporanei, provvisori, fugaci, e che presto sarà di nuovo posseduto dal suo demone cattivo. Sappiamo che queste riconciliazioni sono labili, brevi, tanto intense quanto passeggere.

Ma sappiamo anche che i salmi di riconciliazione che, qualche volta, siamo in grado di cantare o di accogliere, sono più simili a questi brevi e instabili di Saul che a quelli eterni di Davide. Siamo anche capaci di riconciliazioni che generano rapporti sanati per sempre, ma più frequenti sono gli abbracci che assumono le forme di un’oasi dentro un deserto che resta di difficoltà e di conflitti. Dopo anni di dolore e di lotte, anche noi, come Giacobbe e Esaù, possiamo scoprirci capaci di abbracciarci e di piangere insieme. Poi, quasi sempre, ricominciano le incomprensioni, vecchie e nuove, le piccole e grandi battaglie di ieri e di oggi. Ma la non-stabilità della pace e della riconciliazione non annullano la verità e la bellezza di quegli abbracci e di quelle lacrime, che restano veri e bellissimi anche quando durano solo pochi attimi. La rosa, perché effimera, non è meno vera e bella del pino e dell’ulivo. Sappiamo poi che i figli qualche volta tornano, e noi facciamo festa grande. Ma, diversamente dal figlio giovane della parabola di Luca, quegli stessi figli, finita la festa, molte volte ripartono di nuovo verso altre libertà; loro tornano nei porcili e noi torniamo sull’uscio di casa ad attenderli, senza sapere se, quando e come torneranno ancora, né se questa volta il fratello maggiore farà festa con noi.


La maturità e il mestiere del vivere si apprendono imparando a gustare intensamente le piccole riconciliazioni passeggere, a far festa con i figli tra un ritorno e una nuova partenza. Perché se sono incontri veri e sinceri, sono a loro modo perfetti anche se temporanei. Sono infiniti perché instabili e transitori. E alla voce del passato che mentre siamo nell’abbraccio e nelle lacrime mescolate ci sussurra all’orecchio: "tanto non durerà", dobbiamo rispondere: "non è vero, vai via, non importa; importa solo il paradiso di questo abbraccio vero". Perché è dentro questi abbracci provvisori che ci raggiunge e tocca l’eterno, è lì che possiamo fare l’esperienza del sublime, sentire il palpito più profondo della vita. È questa la sola possibilità che abbiamo per sperimentare, qui sulla terra, l’eternità (o la cosa che più le assomiglia). Il desiderio e la nostalgia, profondi e verissimi, del banchetto finale della riconciliazione definitiva, non devono mai toglierci la gioia vera dei banchetti brevi e provvisori, che, quasi sempre, sono i soli che riusciamo a imbandire e consumare insieme sotto la nostra tenda mobile. E così, cercando di imparare la mite arte degli abbracci provvisori, alla fine, forse, capiremo che il deserto e l’oasi erano la stessa cosa. E che non ci è mancato nulla, perché, anche se non lo sapevamo, da quei brevi abbracci veri non eravamo mai usciti.


l.bruni@lumsa.it