L'infamante accusa di «rubare» bimbi è forse firmata dalla famiglia De Benedetti?
Gentile direttore,
le scrivo in merito ai contenuti dell’inchiesta che ho appena letto letto nell’ultimo numero de “L’Espresso” (disponibile online già dal 7 luglio 2016) e riportato in copertina, dal titolo “Congo, Italiani ladri di bambini”. “Avvenire” ne ha scritto oggi (8 luglio) riportando i contenuti dell’accusa, contestualizzandola e dando voce anche alla risposta di un’importante associazione che opera sul fronte delle adozioni. Vorrei chiederle di potermi rivolgere anche attraverso questo giornale all’autore dell’articolo, il giornalista Fabrizio Gatti che sto a fatica cercando di contattare. Premetto brevemente di aver regolarmente e felicemente adottato, di svolgere un lavoro con un profilo pubblico e mediaticamente esposto, e che sono un lettore anche dei libri di Gatti (“Bilal”, “Viki che voleva andare a scuola”...) e che seguo il suo lavoro con grande interesse.
«Gentile dottor Gatti, mi pare di poter sintetizzare così il contenuto del suo reportage: un ente si è comportato in maniera profondamente scorretta; la Commissione adozioni internazionali (Cai) si è spesa per risolvere il problema della moratoria delle adozioni in Repubblica democratica del Congo (Rdc). In merito al primo punto (ente scorretto), confesso di non conoscere e di non aver avuto esperienza diretta di persone e avvenimenti, per cui lascerei in sospeso il giudizio. In merito all’operato della Cai (impegnata a suo dire nella soluzione della moratoria) avrei potuto invece suggerirle delle testimonianze che avrebbero spinto la sua ricostruzione su prospettive assai diverse, ma ognuno sceglie le sue fonti e opta per la ricostruzione che gli sembra migliore. Quello che trovo francamente inaccettabile nella sua inchiesta è il titolo e il significato generale che essa proietta sul mondo delle adozioni. Lei scrive «Congo, italiani ladri di bambini». Ci sarebbe già tutto per una querela... ma abbiamo scritto tanto nell’attesa dei nostri figli e non ne possiamo proprio più. Abbiamo perso la salute. Abbiamo perso la fiducia nelle istituzioni. Adesso dobbiamo leggere articoli che mettono in crisi le nostre opinioni sulla professionalità della carta stampata? Un titolo del genere (spesso l’unica cosa su cui il lettore medio si sofferma...) e il contenuto generale dell’articolo, espone non solo le famiglie, ma anche e soprattutto i bambini che per la stragrande maggioranza sono stati adottati regolarmente! Li espone al pubblico sospetto. All’opinione ostile di chi è già ignorante di suo sulla realtà dell’adozione e non ha bisogno del suo articolo per averne un’idea più obiettiva. Questi bambini hanno già il loro fardello! Quando andranno a scuola, che cosa dovranno dire ai compagni? Che cosa dovranno rispondere alle domande magari tanto ingenue quanto indiscrete? Il suo articolo finisce per esporli al giudizio di una comunità italiana imbarbarita da anni di politica che ha usato l’argomento della paura dello “straniero” e dell’intolleranza come strumento di consenso. Provi a leggere qualcuno dei commenti al suo articolo presente online sul sito de “L’Espresso”. Vedrà. Le chiederei – in nome della correttezza professionale che ho sempre apprezzato nel suo lavoro, in nome di quanti si spendono con passione e onestà nel mondo delle adozioni e in nome di tutti i bambini adottati regolarmente – di tornare sull’argomento, con le necessarie precisazioni». Questa è la lettera, direttore. Valuti lei se darmi una mano a far sentire una voce che non è solo mia. La ringrazio dell’attenzione e la prego, nel caso, sono certo che capisce perché, di non pubblicare per esteso il mio nome e cognome.
G. C.
Non pubblico quasi mai e non lo faccio mai volentieri lettere solo siglate e per di più dirette ad altri giornali e a colleghi giornalisti che scrivono altrove o che, comunque, li interpellano, contestando in tutto o in parte il loro lavoro. Stavolta faccio un’eccezione, con il consueto disagio, ma con convinzione. E non solo perché anche “Avvenire” è stato tirato in ballo dall’articolo de “l’Espresso”. Stimo anch’io Fabrizio Gatti e ho apprezzato, negli anni, i risultati del suo impegno professionale e proprio per questo sono stato molto colpito e sorpreso da forma e sostanza dell’accusa a cui ha prestato la sua penna in questa occasione. Posso dirle, gentile e caro amico, che lei è riuscito a comunicare molto bene, con grande passione e con civilissimo tono, i motivi di questo sconcerto, dunque non ci torno su. Aggiungo solo una sottolineatura: neanche una riga di replica è stata data in ben nove pagine di articolo a coloro che sono stati gravati di un’accusa pesantissima come quella di essere «ladri di bambini». Un costume che va dilagando nella stampa italiana, ma al quale non ci si deve rassegnare come i miei colleghi sanno bene, visto che nella mia responsabilità chiedo che tutte le parti in causa siano sempre cercate e, se disponibili, ascoltate e presenti nei nostri articoli. Non ho però voglia né titolo per dare “lezioni” a un collega come Gatti che, ripeto, negli anni ho imparato a stimare. Una cosa, però, non rinuncio a dirla. Nel suo pezzo, Gatti ci riserva una sferzata: «Perfino la Conferenza episcopale italiana, attraverso il suo quotidiano “Avvenire”, ha sostenuto la campagna contro il magistrato Della Monica» (la controversa vicepresidente operativa della Cai, alla quale viene addebitata una gestione monocratica e inefficace della commissione stessa). Rilegga i nostri articoli, il collega. E verifichi pure con le sue fonti privilegiate. I giornalisti di “Avvenire” che hanno scritto dei pasticciacci delle adozioni internazionali firmano con nome e cognome – Luciano Moia, Viviana Daloiso – e sono professionisti competenti, conosciuti e rispettati che non fanno campagne ad personam, ma hanno posto domande scomode – su problemi concreti, espressi e condivisi anche dalla maggior parte delle associazioni e degli enti che da anni si occupano di adozioni – alle quali alcuni hanno risposto mentre altri, compresa la vicepresidente Della Monica, hanno purtroppo evitato quasi sempre di farlo. È stata ed è una delle permanenti campagne informative di “Avvenire”, centrata su un tema – quello delle adozioni – delicato e umanamente sensibile del quale purtroppo pochi si occupano con la giusta intensità. Una campagna di “Avvenire” non della Cei in quanto tale. O dovrei concludere che il pezzo di Gatti è un pesante attacco agli italiani che adottano in Congo, accusati di esser «ladri di bambini», condotto dalla potente famiglia De Benedetti, maggior azionista del Gruppo Repubblica-Espresso?