Opinioni

Botta e risposta. L'industria italiana non è «succursale». E merita politica adeguata

Marco Girardo martedì 2 aprile 2019

(Ansa)

Caro direttore,

l’Italia ormai in tanti settori strategici per vari motivi parla straniero. Anzi pare proprio che sia diventata una succursale delle grandi multinazionali. Sono rimasti in pochi i grandi imprenditori nostrani capaci di imprimere per la forza del marchio un salto di qualità al “made in Italy”. Naturalmente si spera che prima o poi le cose cambino. Soprattutto per chi vuole fare impresa, ricerca, creare ricchezza e migliorare il futuro di tutti.

Massimo Aurioso, Piombino (Li)


Non vi è dubbio, gentile lettore, che a Piombino la crisi della manifattura italiana finita in mani straniere si sia fatta drammaticamente sentire in questi ultimi anni. L’acciaieria ex Lucchini, la seconda del Paese dopo l’Ilva di Taranto, ha conosciuto diversi passaggi di proprietà ed è stata da ultimo rilevata, nel 2018, dal gruppo indiano Jindal. Che a fatica, quasi a strappi, promettendo un miliardo di capitali freschi, sta provando a rilanciare il complesso siderurgico. È una buona notizia, in tal senso, la ripartenza dei due treni di laminazione Aferpi ancora fermi, che porteranno a breve, stando alle indicazioni dei sindacati, il numero di dipendenti reimpiegati dai 450 attuali fino a circa 1.000.

La sua lettera, alla quale il direttore mi chiede di rispondere, affronta tuttavia, più in generale, il tema degli investimenti esteri nelle aziende italiane. Poco distante da Piombino ce n’è ad esempio uno ben riuscito: quello della General Electric che ha rilevato dall’Eni il Nuovo Pignone, storica azienda fiorentina per la produzione di compressori e turbine e per la movimentazione di gas e idrocarburi. E si potrebbero citare decine di altre operazioni di questo tipo, investimenti esteri che hanno quindi funzionato, a fronte di acquisizioni straniere fallite. Al di là dei capitali cinesi, indiani o americani, in ogni caso, risorse di cui il Paese ha semmai ancora più bisogno, il nostro sistema manifatturiero resta comunque il secondo in Europa e il settimo al mondo. Con una ventina di campioni nazionali che presidiano mercati di punta e qualche centinaio di medie aziende che hanno saputo inserire perfettamente il “made in Italy” nelle cosiddette nuove catene globali del valore, fenomeno che incide sulla specializzazione produttiva dei singoli Paesi i quali, oggi, in larga parte, competono sulle fasi di produzione invece che sui beni finali, di fatto “made in World”. Nel triennio 2014-2017, secondo i dati Istat elaborati da Marco Fortis (Fondazione Edison), il valore aggiunto dell’industria manifatturiera italiana è sempre aumentato più del valore aggiunto delle manifatture francese e britannica; in due anni su tre, anche di quello della manifattura tedesca. Il motore industriale dell’Italia ha viaggiato in questo stesso periodo a velocità doppia rispetto al Pil, al quale hanno invece dato un contributo negativo l’intero settore pubblico, l’edilizia, il settore bancario e finanziario e i settori infrastrutturali e dei servizi. Certo, si potrebbe fare ancor meglio, tenendo conto che il nostro tessuto produttivo è costituito addirittura per il 94% da imprese con meno di quindici dipendenti. Queste piccole imprese, anzitutto per un problema dimensionale, non riescono a investire adeguatamente in ricerca e sviluppo, sono afflitte da un ritardo tecnologico e da un basso livello di competenze. A livello di Sistema Paese, infine, rappresentano tuttora un forte limite alla produttività – e dunque alla competitività – le carenze di adeguate infrastrutture (anche giuridiche, a partire dall’eccesso di burocrazia), le difficoltà di accesso al credito o al mercato dei capitali e il crescente divario Nord-Sud. Sarebbero priorità in qualsiasi piano di rilancio previsto da una seria politica industriale... Che aspettiamo di vedere articolata.