Opinioni

Riforme e disuguaglianze. Se l'Autonomia minaccia la tenuta del Meridione

Oscar Iarussi venerdì 26 gennaio 2024

Stiamo assistendo con indifferenza alla «scomparsa del Sud»? Non è una boutade vagamente apocalittica. La Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, certifica dati alla mano «il gelo demografico nazionale e lo spopolamento del Sud» nel suo ultimo rapporto datato dicembre 2023. Se le regioni settentrionali si avvalgono almeno del ringiovanimento dovuto all’afflusso degli immigrati, in quelle meridionali cresce l’emorragia di cittadinanza. «Dal 2002 al 2021 – leggiamo nel Rapporto – hanno lasciato il Mezzogiorno oltre 2,5 milioni di persone, in prevalenza verso il Centro-Nord (81%). Al netto dei rientri, il Mezzogiorno ha perso 1,1 milioni di residenti». In particolare, vanno via i più giovani e i più istruiti.

Il futuro? «Al 2080 si stima una perdita di oltre 8 milioni di residenti nel Mezzogiorno. La popolazione del Sud, attualmente pari al 33,8% di quella italiana, si ridurrà ad appena il 25,8%». Ecque qua, avrebbe detto Pappagone/ Peppino De Filippo. L’esodo silenzioso è sospinto dalla ricerca di occasioni di lavoro, nonché di studio, come è confermato dal calo delle immatricolazioni nelle università meridionali (a Natale, treni e aerei pieni e carissimi per il fugace ritorno a casa dei figli). Altri segnali d’inizio 2024 non sono certo confortanti, anzi. L’agonia dell’ex Ilva di Taranto, città azzurrissima e martoriata dal dilemma salute- lavoro, sembra giunta alla fase terminale. Resta l’incerta prospettiva del commissariamento, sullo sfondo di un diffuso disinteresse per il futuro industriale del Paese.

Laddove il gigante indiano ArcelorMittal, socio maggioritario del Siderurgico insieme a Invitalia, disinveste da noi e al contempo annuncia di puntare 1,8 miliardi di euro sull’acciaieria di Dunkerque d’intesa con il governo francese. Prosegue stancamente, intanto, la polemica per i tagli previsti dall’Esecutivo al fondo perequativo in Manovra: da 3,5 miliardi a 900 milioni, destinati a ospedali e scuole del Sud. Martedì scorso il Senato ha dato via libera al disegno di legge n. 615, «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario», voluto dal ministro per gli Affari regionali, il leghista Roberto Calderoli, e approvato quasi un anno fa dal Consiglio dei Ministri alla vigilia delle elezioni regionali in Lombardia. Già, secondo taluni osservatori, la vera partita in gioco è la contesa interna al centrodestra ora in vista delle europee, con la Lega che brama il varo dell’«autonomia» per risalire la china rispetto a Fratelli d’Italia.

Sarà, ma tale lettura «minimalista » sottovaluta la portata simbolica di un vulnus all’idea stessa di Italia. Dacché si è insediato il governo Meloni si fa un gran parlare di patria o nazione, mentre di fatto è tornata di scena la devolution padana cara a Umberto Bossi. Perché di questo si tratta: la devoluzione dallo Stato alle Regioni di competenze, poteri e risorse derivanti dal gettito fiscale in un ampio spettro di materie.

L’economista Gianfranco Viesti ne ha elencate ventitré nel pamphlet La secessione dei ricchi (Laterza 2023): da scuola e università a sanità e trasporti, da ambiente e energia a lavoro e immigrazione... D’altro canto non v’è ancora sufficiente chiarezza, se mai vi sarà, sulla definizione e sul finanziamento dei cosiddetti «Lep» (Livelli essenziali di prestazione), l’auspicato meccanismo di compensazione in favore delle Regioni meno ricche (spoiler: sono le meridionali), allo studio di una commissione presieduta dal giurista Sabino Cassese. Vescovi e sindaci si sono più volte espressi contro l’autonomia differenziata, come la Cgil e alcuni esponenti di Confindustria, ma il governo tira dritto. Così, a quattro anni dall’inizio della pandemia che ha dimostrato la necessità di una salda guida centrale, presto potremmo ritrovarci nello scenario opposto: un’Italia sfarinata e viepiù diseguale. Non s’intende bene l’orizzonte della premier Giorgia Meloni, erede della destra sociale da sempre centralista, in questo caso cedevole «in cambio del premierato», secondo una vulgata di Palazzo.

Mah, forse conta piuttosto l’immoral suasion di un certo piagnisteo settentrionale, a dispetto dei buoni propositi e dei miliardi del Pnrr. Eppure, nella nostra storia, da Cavour e Nitti a Sturzo, da Gramsci a De Gasperi, da Salvemini a Moro, non v’è élite degna di dirsi tale che non abbia posto la questione meridionale in cima alle ambizioni e all’azione. Rinunziare a colmare il divario Sud-Nord segnala il declino delle leadership italiane da almeno una ventina d’anni in qua. Ed è un problema per tutto il Paese, più fragile in Europa e oltre.