L’incendio che all’alba di domenica ha devastato la stazione Tiburtina di Roma (lo scalo che, declassando di fatto Termini, è destinato a diventare il più importante della capitale, perno dei collegamenti ad alta velocità tra il Nord e il Sud del Paese) ha fatto precipitare nel caos i trasporti su rotaia a livello nazionale e i trasporti locali della città. Le Frecce variamente colorate – l’emblema della modernità ferroviaria made in Italy – hanno dovuto arrendersi, fermarsi, arrancare a passo di accelerato di una volta o rassegnarsi ad accogliere a bordo plotoni di pendolari dei treni regionali. È accaduto ad esempio ieri mattina a Orte. Se le indagini sul rogo dovessero appurare che l’evento ha avuto una origine dolosa, dovremmo ammettere che raramente l’azione criminale di un singolo o di una banda ha avuto ripercussioni di tale impatto, avvertite da un capo all’altro della Penisola e non ancora riassorbite da un problematico ritorno alla normalità.Ma le fiamme della Tiburtina, e la paralisi ferroviaria che ne è conseguita, offrono purtroppo soprattutto la conferma di un dato di fatto incontestabile: l’estrema debolezza, l’inadeguatezza congenita del sistema infrastrutturale del Bel Paese. Nel caso specifico, la fragilità di una rete di collegamento che può contare – raddoppi recenti a parte – su un’unica linea dorsale tra il Settentrione e il Meridione, cioè tra Milano e Napoli. Una linea che penetra nell’agglomerato urbano di Roma perché sarebbe follia tagliare fuori la capitale dal circuito dell’alta velocità, ma che proprio per questo – in mancanza di by-pass praticabili – espone il Paese al rischio di essere tagliato in due in caso di incidenti gravi in uno snodo critico come quello di una grande stazione finita improvvisamente fuori uso, e ancora ieri con pochissimi binari utilizzabili dopo l’ok dei Vigili del fuoco. Giusto per far transitare tre treni su quattro, secondo Fs.Nel caso dell’incendio di domenica, a disastro si è aggiunto disastro perché le fiamme hanno coinvolto anche la linea B della metropolitana. In una Roma dove la mobilità è già estremamente difficoltosa in condizioni normali, la prospettiva da incubo di una prolungata chiusura di questa tratta (peraltro riaperta ieri mattina, anche se la fermata Tiburtina resta inagibile) aveva gettato nel panico amministratori locali e cittadini. Ma quando in una capitale europea di siffatta estensione le linee di metrò sono soltanto due, a fronte delle decine attive in altre grandi città, basta un piccolo intoppo per creare allarme e caos ulteriore. In altre parole, paralisi.Siamo alle solite, alla presa d’atto obbligata della pochezza – se non a volte dell’arretratezza – delle strutture che, assieme alla mobilità delle persone e delle merci, devono garantire la modernizzazione del Paese. Modernizzazione sempre promessa, sempre apparentemente a portata di mano a ogni riproposizione del ritornello delle Grandi Opere, mai in realtà concretizzata. Sicché il deficit di ferrovie, metropolitane, strade e autostrade rimane, pesa e impone costi intollerabili all’economia dei singoli, delle famiglie, delle comunità locali e della comunità nazionale.A fronte di queste considerazioni perfino banali dovrebbe emergere a tutto tondo l’inconsistenza delle ragioni di chi – magari in buona fede, fuori dai condizionamenti delle ideologie – si oppone a nuove opere pubbliche, nuove realizzazioni (fosse pure un gassificatore o un impianto di trattamento rifiuti), nuove linee anche ferroviarie là dove possono essere utili. Si pensi al cosiddetto Terzo Valico tra Genova e la pianura. Senza entrare nel merito dell’irrisolta questione della Tav in Valle Susa, dove il fronte è sempre caldo e le tensioni non accennano a placarsi, la miopia di chi per partito preso alza costantemente la paletta rossa davanti alla prospettiva dell’apertura di qualsivoglia cantiere ha qualche cosa di antistorico, e la cosa sarebbe ininfluente se non facesse del male al Paese. Ne blocca infatti la crescita, frena il Pil, tarpa le ali al suo sviluppo, pone ostacoli alla creazione di posti di lavoro.Non serve a nulla, poi, protestare per un treno in ritardo, per un intasamento da incubo su una tratta autostradale o per l’inquinamento che rende irrespirabile l’aria di molte città.