Caso Cospito e doveri della politica. Incendiaria disumanità
«La politica è soluzione dei problemi»: questo fu l’insegnamento di Franco Marini, ricordato ieri su “Avvenire” da Giorgio Merlo a due anni dalla morte. Un insegnamento che andrebbe tenuto bene a mente da una politica che invece, oggi, sembra incapace di trovare soluzioni e capace soltanto di agitare i problemi, sventolandoli come vessilli. Se il caso di Alfredo Cospito fosse stato affrontato al suo insorgere, mettendo in campo e facendo dialogare le diverse competenze (politiche e giudiziarie), ora la situazione non sarebbe così drammatica. Invece, siamo a questo punto: un detenuto in sciopero della fame da più di cento giorni, dipinto come un puro e semplice «ricattatore dello Stato».
Il «visitare i carcerati» – che da bambini ci veniva insegnato come opera di misericordia – è ormai descritto solo come subdola manovra tesa a confabulare con il “nemico”. Quando, al contrario, ogni parlamentare dovrebbe sentire il dovere il visitare periodicamente le prigioni della Repubblica. E così anche le donne e gli uomini che vestono la toga ed emettono sentenze e che spesso non hanno mai varcato la soglia della “saletta magistrati” in cui si recano a interrogare gli imputati: non sono mai entrati nelle sezioni, non si sono mai affacciati in una cella, mai hanno parlato con il personale penitenziario, con i cappellani e i tanti volontari che in carcere quotidianamente lavorano. Siamo consapevoli che Cospito è stato condannato per reati molto gravi, commessi con modalità disumane, come è sempre la feroce “gambizzazione” di un uomo scelto come simbolo del potere e per questo colpito, come si colpisce una “cosa”.
Conosciamo le altre accuse che gravano su di lui. E siamo anche convinti che Cospito è persona pericolosa: capace, se fosse libero, di commettere, o di indurre altri a commettere, ulteriori reati. Ma è possibile che lo Stato non sia capace di rispondere a questa disumanità con una pena che non sia disumana? È possibile che, nell’Italia di Cesare Beccaria, l’unica soluzione al “caso Cospito” sia la morte di Cospito? Bobby Sands, militante dell’Ira, un altro uomo che molti politici e commentatori di oggi definirebbero un «ricattatore dello Stato», morì in un carcere inglese nel maggio 1981, dopo 66 giorni di sciopero della fame, un mese dopo essere stato eletto al Parlamento britannico.
Oggi quasi nessuno ricorda i reati per cui era stato condannato: detenzione di armi usate nello scontro a fuoco contro uomini della polizia dell’Ulster. Ma a distanza di oltre quarant’anni e per chissà quanto ancora, gli irlandesi e tanti di noi, in tutto il mondo, ricordano e ricorderanno che Sands morì in un carcere “duro”, chiamato Maze (labirinto), in cui poteva scrivere poesie soltanto utilizzando carta igienica e cartine delle sigarette. E che quello sciopero della fame non mirava alla propria liberazione, ma a ottenere, per sé e per gli altri prigionieri politici, condizioni di detenzione più umane. Chi dimentica queste lezioni della storia è un incendiario. E la politica non dovrebbe farsi tracciare la strada dagli incendiari.