Pericolose pulsioni semplificatorie. Inaccettabile noi contro loro
In questo tempo, che viene definito “liquido”, una concezione preoccupante si va diffondendo in tutta Europa: è l’idea che, in ogni ragionamento e presa di posizione, occorra distinguere tra un “noi” e un “loro”. Non ci troviamo del resto, con l’aggressione russa all’Ucraina, in una stagione di guerra, in cui uno spirito di contrapposizione risulta essere non solo giustificabile ma addirittura obbligato? In altri contesti, come in Svezia, si è giunti ad autorizzare la richiesta di dare alle fiamme un Corano, incuranti tanto dei rischi per la pubblica sicurezza, quanto del monito di Heine: «Laddove si bruciano i libri si finirà per bruciare gli uomini».
Un gesto che ha suscitato anche la reazione «indignata» e «disgustata» di papa Francesco: «Qualsiasi libro considerato sacro dai suoi autori deve essere rispettato per rispetto dei suoi credenti, e la libertà di espressione non deve mai essere usata come scusa per disprezzare gli altri». In Francia – in una situazione resa drammatica dall’estendersi e dall’aggravarsi delle proteste e degli scontri originatisi dall’uccisione di Nahel M. a Nanterre – l’ex allenatore di un’importante squadra di calcio è stato incriminato per aver dichiarato che occorreva «tener conto della realtà della città e che non si potevano avere così tanti neri e musulmani in squadra».
E l’Italia? In Parlamento un deputato di colore è stato fatto oggetto di «cori da stadio, schiamazzi, ululati, simili a quelli che allo stadio vengono sanzionati come razzisti», come ha fatto notare il deputato Faraone, mentre le trascrizioni delle sedute minimizzano e parlano di semplici “commenti”. Allo stesso tempo il direttore di un quotidiano ha difeso il concetto stesso di discriminazione con queste parole sul suo giornale: «Ovvio che lo Stato non possa. Ma nessuno dovrebbe poter impormi di non discriminare in base alle mie convinzioni. Per quanto odiosa – a volte ributtante – possa essere, la discriminazione in sé non è reato». Verrebbe da dire: è peggio di un reato!
L’articolo 3 della Costituzione repubblicana recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità […] e sono eguali […], senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». La condanna della discriminazione è dunque un pilastro della nostra carta fondamentale, posto alla base della costruzione di un’Italia diversa da quella fascista, che aveva invece fatto delle discriminazioni la propria bandiera. E se l’art. 3 continua dicendo che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale...», è dovere di tutti noi vigilare che a quegli intralci non se ne aggiungano – o non risorgano – altri, di tipo culturale, mentale, e così via.
La società italiana è purtroppo percorsa da pulsioni semplificatorie e generalizzanti che danno luogo a manifestazioni di razzismo strisciante o esibito, non di rado violente, e che a loro volta alimentano nuovi circuiti di intolleranza, esclusione, pregiudizio.
I motivi sono molti: l’acutizzarsi delle disuguaglianze economiche, l’atomizzazione degli individui, l’insufficienza di un investimento culturale di largo respiro, la preoccupante facilità con cui toni xenofobi si sono fatti largo fin tra i mass media e le istituzioni. Gli esempi richiamati sono un campanello d’allarme. Non possiamo sottovalutarli come fossero cronaca che passa. Essi rappresentano un attentato alla tenuta stessa del Paese, ai riferimenti cardine e ai valori fondanti della nostra civiltà. Messaggi di odio, di disprezzo, di irrimediabile alterità rimestano nel torbido e gettano ami per coloro che cadranno nella trappola della polarizzazione identitaria. Le parole sono potenti. Possono essere pietre.
Possono ferire, o preparare la via alla violenza, magari presso i più giovani o gli animi più confusi. Che quanto accade sia di monito a tutti, invito ad un esercizio di maggiore responsabilità, appello a non essere cattivi maestri. Il benessere, la dignità, il riscatto di ognuno di noi sono strettamente legati a quelli di coloro che ci vivono accanto, chiunque essi siano. Il nodo è tutto qui. Convivere con l’altro, con il diverso da me. È la grande alternativa alla possibile disintegrazione della società. È un “vivere con” che necessita pazienza, impegno, capacità di comprensione: per vivere con gli altri bisogna sforzarsi di comprendere chi sono, e non solo ribadire chi siamo. Ma è il grande antidoto a quel “vivere senza” che è l’anima di tutti i mali. Di quelli del passato, come pure di quelli del futuro. Per superare definitivamente il “noi” contro “loro”, e così ogni forma di razzismo strisciante o manifesto.