A un certo punto non ne potevo più di vedere tutte quelle tende blu dei campi di accoglienza, che riempivano molti angoli del nostro territorio, qui a L’Aquila. Un colore che parla, il blu. Non forte come il rosso che fa pensare all’emergenza, ma comunque un colore intenso che tende anche a rassicurarti. Sì, in effetti, i posti più sicuri per noi aquilani, in questi sette mesi, sono stati proprio quelle tende blu. Non ci proteggevano dal caldo o dal freddo ma dal mostro più cattivo: il terremoto. Fra qualche giorno, però, non ci saranno più. A quelle tende sono legati ricordi indelebili della nostra vita. Luca, un volontario della diocesi, ieri mi ha mostrato il display del suo cellulare con la foto della tenda in cui ha vissuto fino a qualche settimana fa. «È parte di me – mi ha detto – e chi potrà mai dimenticare i giorni vissuti lì dentro!». Gli angoli della città man mano stanno tornando del colore che avevano prima del 6 aprile. Non più il blu delle tende ma i colori dei campi sportivi, dei terreni o dell’asfalto dei piazzali in cui sono state installate le tendopoli. Tanti di noi, finalmente, hanno trovato un tetto sicuro, anzi, sicurissimo sotto cui ritrovare un po’ di normalità e di pace. I villaggi del progetto «Case» sono davvero all’avanguardia, hanno fatto il giro del mondo; in qualche modo, nonostante la tragedia, sono l’orgoglio dell’Italia intera. Il terremoto è riuscito a sfatare un mito tutto nostrano: quello di dare il meglio di sé solo all’estero.Non c’è dubbio che all’Aquila lo Stato s’è palesato. Ma come non capire, tuttavia, chi si ostina a non voler lasciare le tende? Chi dice di non voler essere "deportato" altrove? Certo questa parola evoca tragedie molto più grandi di quella aquilana. Ma, dopo aver perso tutto, lasciare anche la propria terra non è facile. Non è facile per i quasi ventimila aquilani che hanno sì un tetto ma sono sparsi tra gli alberghi della costa o della provincia. Francesco, un ex professore dello Scientifico, mi ha confidato: «Da poco sono andato in pensione e pensavo di poter stare tranquillo con mia moglie. Invece sto al mare, dove non manca l’ospitalità, ma quando sento parlare un dialetto che non è il nostro prendo la macchina e torno a vedere la mia casa in centro città». E ancora, due coniugi ottantenni che vivono in una roulotte ricevuta in dono: «Non ci siamo mai mossi dal nostro paese. Non possiamo andare altrove. Abbiamo sempre vissuto qui, abbiamo gli animali da accudire!». E poi i tanti che, scegliendo una sistemazione autonoma, ancora sono ospiti di parenti o di amici in attesa che possa decollare la ricostruzione cosiddetta "leggera". Segni di normalità, dunque, per alcuni. Per altri la normalità è ancora lontana. Ogni mattina, all’uscita dai caselli dell’autostrada che viene dal mare, si forma una lunghissima fila di macchine dei pendolari che ancora non riescono a rientrare in città definitivamente. Ecco, quella lunga coda è L’Aquila che vuole tornare a casa, che vuole ritrovare i suoi ritmi, i suoi colori, le sue montagne, la sua aria. Aria di montagna, una montagna che non ha mai regalato nulla e che ha messo sempre a dura prova la resistenza degli abruzzesi. Così come il terremoto. Non è semplice nemmeno pregare all’Aquila perché, nonostante lo sforzo immane che si sta compiendo, non c’è più la bellezza delle nostre chiese che sapeva innalzare l’animo all’unica Bellezza in grado di dare fiducia e salvezza. Nonostante tutto, però, Dio è per noi «rifugio e forza». Perciò non temiamo se ancora trema la terra. Anche quando le genti sono scosse, e i regni vacillano.