Ambiente e popolazioni. In Nord Africa e Medio Oriente rischi di conflitti per il clima
Siccità in Africa
Prima di accodarsi alle file armate dell’Isis, Sameh era un agricoltore. Un giovane iracheno dedito alla cura di un pezzetto di terra coltivato ad orzo e frumento nei pressi di Mosul. Non sono state le conseguenze devastanti di una battaglia a spingerlo tra i 10mila soldati del Califfato che oggi si contano tra Siria e Iraq. Nel baratro del terrorismo l’ha spinto la stessa forza che ha prosciugato il bacino idrico di Mosul. Tanto intensa che nel 2019 ha riportato alla luce dal letto del fiume Tigri un palazzo imperiale di oltre 3.400 anni fa. È la siccità che ha vinto Sameh: rimasto senza un campo da coltivare perché inaridito dal clima, non ha trovato altro per sopravvivere. Da solo, disperato, è entrato nell’armata del Daesh.
Sameh è un nome di fantasia, ma la sua storia ricalca quella di moltissimi millennials che vivono nella “Mezzaluna fertile”. Come spiega Aldo Liga, Research Fellow all’Osservatorio Medio Oriente e Nord Africa dell’Ispi: «Il reclutamento fatto dal-l’Isis di unità combattenti in Iraq è stato facilitato dal fatto che alcune aree a maggioranza sunnita siano state a più riprese colpite da periodi di siccità. Chi si dedicava all’agricoltura è rimasto senza alternative economiche e sostentamenti da parte dello Stato: questo ha facilitato la crescita delle forze terroristiche».
L'inaridimento della Mesopotamia (regione che tocca l’Anatolia, la Siria, la Palestina e l’Egitto) è iniziato a metà del secolo scorso, portando a un’ondata di siccità dal 2006 al 2010: la più lunga e intensa mai registrata. Perché? A causa di due fenomeni derivati dal riscaldamento globale: meno precipitazioni stagionali e temperature maggiori. Rispetto agli inizi del ’900, le temperature medie nell’area sarebbero oggi più alte di circa 1,2 gradi. Pensiamo alla Siria: terreni aridi, sempre meno acqua e incremento demografico hanno incentivato l’esplosione della guerra civile. «L’abbandono delle campagne ha creato maggiore urbanizzazione: nel decennio precedente le rivolte del 2011 la popolazione nelle città siriane è cresciuta in modo esponenziale – prosegue Liga –. Una maggior urbanizzazione, non gestita, con persone in situazione di vulnerabilità, crea tensioni potenzialmente esplosive». Un problema, quello della siccità, che ha toccato nuovamente il Corno d’Africa che sta affrontando la peggiore siccità dagli anni 80. E anche l’Afghanistan, dove dalla metà del secolo scorso le temperature medie sono aumentate di 1,8 gradi. Fomentando le migrazioni interne e supportando indirettamente la campagna di riconquista dei talebani che ha visto capitolare il paese la scorsa estate.
Tanti studi stimano una correlazione tra cambiamenti climatici e la crescita di conflitti armati: ma dove saliranno le temperature e si potrebbero inasprire i conflitti in futuro? Guardando il planisfero politico, non è difficile immaginarselo: Medio Oriente e Nord Africa (area detta MENA, ndr). Dove la lotta per l’accaparramento delle risorse (in particolare, il petrolio) e per la definizione degli equilibri di forza geopolitici sono una costante dell’ultimo secolo. Dove sicuramente la temperatura salirà sopra la media nei prossimi decenni. E Avvenire ha potuto avere una stima di quanto, grazie all’aiuto del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti climatici (Cmcc). «Le analisi climatiche dei dati osservati nella regione MENA indicano che l’area rappresenta un hotspot dei cambiamenti climatici, poiché le temperature stanno aumentando molto più velocemente che nel resto del mondo. Alcune parti della regione sono già tra le località più calde a livello globale – spiega Marianna Adinolfi, ricercatrice del Cmcc – e inoltre da un recente studio pubblicato su Nature Climate and Atmospheric Science, le proiezioni provenienti da diverse simulazioni climatiche indicano una traslazione delle distribuzioni sia di temperatura media estiva (tra Maggio e Settembre) che massima verso condizioni più calde».
Di quanto? Tra i 5 e i 6°C in più rispetto all’ultimo mezzo secolo, qualora le emissioni continuino ad aumentare e in assenza di politiche di mitigazione (scenario Rcp8.5 dell’Ipcc). «In pratica, passeremo da una media sull’intera area MENA di 33 gradi nel trentennio 1981-2010 a circa 38 nel trentennio 2070-2100. La distribuzione delle temperature massime, che tra il 1981 e il 2010 sono state di circa 40 gradi, passeranno a 46 gradi».
Adinolfi descrive le proiezioni sulle temperature reali che sono comunque inferiori a quelle percepite nelle singole zone, a causa dell’umidità specifica e delle condizioni climatiche locali.
Facciamo un esempio. A giugno del 2017, nella cittadina di Ahvat in Iran l’asticella del termometro ha sfiorato i 54 gradi ma data l’umidità elevata la percepita è arrivata a 60. E una temperatura più alta significa spesso penuria idrica. Senza acqua e cibo, il popolo si ribella così nel prossimo futuro «potrebbe aumentare la repressione, specie nei regimi autocratici – afferma Liga dell’Ispi –. È successo quest’estate nella provincia del Khuzestan, in Iran, dove a causa della mancanza di acqua ci sono state proteste represse nel sangue». Non solo gradi in più. «Sempre secondo lo scenario peggiore – prosegue Adinolfi – più aree saranno colpite da temperature estreme. Le ondate di calore aumenteranno in magnitudo, frequenza, durata. Diminuiranno le precipitazioni tra dicembre e febbraio, in particolare in Marocco, Algeria, Libia e nel Nord della penisola arabica».
Meno piogge e tassi di evaporazione più elevati comporteranno una riduzione sensibile della disponibilità di acqua che diminuirà in tutta la regione nel corso del 21° secolo. L’area MENA conta oltre mezzo miliardo di abitanti: la popolazione crescerà così come l’urbanizzazione. «In Nord Africa rischiamo di avere situazioni socialmente complesse – riprende Liga –. La Banca Mondiale stima in 19 milioni di persone i rifugiati interni che abbandoneranno le campagne creando megalopoli ingestibili, dove la situazione sarà sempre più esplosiva. Città come Casablanca, Rabat, Algeri, Tunisi, Il Cairo sono particolarmente a rischio». La regione è poi caratterizzata da gravi disuguaglianze e saranno i più poveri a pagare il conto dei cambiamenti climatici.
D'altro canto, ci sono anche buone notizie. «Negli ultimi mesi molte delle rivalità regionali in Medio Oriente si sono alleviate. Ad esempio, il dialogo è ripreso tra Arabia Saudita e Iran, tra Turchia ed Egitto, tra Qatar e i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo. Non ci sono stati i conflitti dell’acqua che avevamo immaginato. Giordania e Israele, ad esempio, hanno raggiunto un accordo sulla fornitura d’acqua. Certo, c’è tensione continua tra Egitto, Sudan, Etiopia per la Diga sul Nilo che in caso di penuria d’acqua si aggraverebbe».
Ma al momento gli scenari geopolitici peggiori sull’area MENA sono stati smentiti. Il grande problema riguarda la governance circa gli eventi nati dai cambiamenti climatici: «Ad esempio – continua Liga – l’aumento dei prezzi mondiali dei cereali ha un impatto importante sui paesi del Maghreb, fortemente dipendenti dalle importazioni. L’Algeria è il paese africano che importa più cibo: la siccità ha indebolito la limitata produzione interna. In Tunisia non si riesce ad aumentare la produzione agricola perché la gestione delle risorse idriche è disfunzionale: in alcune aree del paese la dispersione idrica raggiunge il 50%. Questi problemi non sono figli solo del riscaldamento globale, ma anche di una governance non adeguata a queste mutazioni climatiche».
Soprattutto se pensiamo a paesi che hanno sofferenze storiche nella gestione della cosa pubblica. Anche Adinolfi suggerisce in termini di politiche di adattamento ai cambiamenti climatici «interventi di natura istituzionale/ politica, ad esempio nel settore delle risorse idriche» e «interventi tecnici, come le infrastrutture di protezione delle coste o le pratiche agronomiche sostenibili». Se si parla invece di mitigazione degli effetti del cambiamento climatico l’unica soluzione è la transizione energetica. Ma come spiega Liga «questo avrà anche un effetto geopolitico: paesi che basano il proprio equilibrio sociale sulla rendita petrolifera rischiano di essere fortemente destabilizzati. Ecco perché tutti i paesi del Golfo hanno piani molto avanzati sulla transizione energetica».
La lotta contro i cambiamenti climatici può essere un’occasione di rigenerazione, trasformando una crisi epocale in un’opportunità: un momento per impostare un futuro diverso. Per farlo c’è bisogno di una più efficace cooperazione internazionale. «Attenzione però – conclude – per essere accettati i progetti non devono essere calati dall’alto ma divenire sintesi del dialogo con le comunità. Altrimenti qualsiasi supporto o finanziamento è destinato a fallire».