Analisi. Terra sacra contesa da due popoli, un sogno di pace tra vicini «inevitabili»
Un bambino palestinese tra le macerie di Rafah, nella Striscia di Gaza
Sarà mai possibile una pace giusta e duratura in Terra Santa, dopo l’orribile attacco terroristico messo in atto da Hamas il 7 ottobre scorso e la risposta bellica del governo Netanyahu, che ha già prodotto quasi ventinovemila vittime fra i Palestinesi nella Striscia di Gaza? Per rispondere a questa domanda mi sembra importante aver presente il testo di Legge Fondamentale, intitolato “Israele, Stato Nazione del Popolo ebraico», approvato dal Parlamento israeliano nel luglio 2018, il cui primo articolo afferma: «La Terra di Israele è la patria storica del popolo ebraico, in cui lo Stato di Israele si è insediato. Lo Stato di Israele è la patria nazionale del popolo ebraico, in cui esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione». Viene poi sancito che Israele «vede lo sviluppo dell’insediamento ebraico come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuovere il suo consolidamento».
Con queste affermazioni si ribadisce l’intangibilità di ciò che attraverso la guerra d’indipendenza del 1948 e quella dei Sei giorni del 1967 Israele ha conquistato come territorio del suo Stato. Rispetto a queste parole riserve e perplessità sono state espresse nello stesso mondo ebraico, come mostra la presa di distanza dell’allora presidente d’Israele Reuven Rivlin che, incontrando i leader della minoranza drusa, la più attiva contro la norma, non esitò a ribadire la sua contrarietà alla Legge, specialmente dove essa afferma che «il diritto di esercitare l’auto-determinazione nazionale nello Stato di Israele è un diritto esclusivo del popolo ebraico» e dove si riformula lo “status” della lingua araba, classificandola da “ufficiale” a “lingua a statuto speciale”. Rivolgendosi poi a tutte le minoranze presenti nello Stato d’Israele, Rivlin, figlio di Yosef Yoel Rivlin, autore della prima traduzione del Corano in ebraico, aveva aggiunto: «Non ho dubbi che voi siate uguali a noi da un punto di vista legale, e dobbiamo assicurarci che anche voi vi sentiate uguali».
Le scelte fatte dall’attuale governo di Israele sembrano muoversi in tutt’altra direzione rispetto alle osservazioni dell’allora presidente dello Stato ebraico: in nome delle sofferenze subite nel passato, dell’atrocità sperimentata con l’attacco di ottobre da parte di Hamas e delle tante lotte sostenute nella storia, a giustificazione della guerra in atto si ribadiscono posizioni dalla forte connotazione identitaria. Peraltro, la contrapposizione delle identità in gioco è evocata dagli stessi termini usati per indicare la Terra d’Israele nel linguaggio delle tre fedi monoteistiche, che riconoscono in Abramo il loro padre comune: gli Ebrei parlano di “Terra d’Israele”, “Terra promessa” o semplicemente di “Terra” (Eretz), accentuando il carattere identitario dell’espressione; i cristiani, sin dall’epoca di Costantino, usano l’appellativo “Terra Santa” per sottolinearne il significato universale per tutti i credenti delle “religioni del Libro”, riprendendo l’espressione usata dal profeta Zaccaria (2,16: admat ha-qodesh in ebraico); per l’Islam, Gerusalemme e la roccia del sacrificio d’Isacco sulla spianata del Tempio sono il luogo benedetto da cui Maometto è asceso al cielo nel suo sogno profetico.
Si comprende, allora, come per i popoli che vi abitano il riferimento alla Terra Santa evochi l’inestricabile coniugazione di promesse e di attese, di speranze e di dolore a essa legate. Scrivono due autori cristiani, uno francese, l’altro israeliano: «Questa terra è la terra di Dio, ma allo stesso tempo è anche la terra degli uomini. È la terra dove “scorrono latte e miele”, ma è anche “una terra di lacrime e sangue”. È una terra affascinante per la sua storia umana e divina, attraente per la sua bellezza e la sua diversità, capace di ispirare i più bei canti mistici così come le violenze più sanguinarie» (Alain Marchadour - David Neuhaus, La Terra, la Bibbia e la storia, Jaca Book, Milano 2007, 22s).
Da questi accenni si può comprendere l’importanza di ciò che la “Terra Santa” viene a significare per l’avvenire degli ebrei e dei palestinesi e per la pace del mondo. La drammatica realtà che è oggi sotto i nostri occhi non può non rapportarsi a una constatazione di fondo: gli ebrei hanno sofferto tanto e convivono ora con un popolo che tanto ha sofferto e soffre a causa loro. Un cristiano di origine ebraica mi ha confidato una volta: «Io non credo che ci sarà una soluzione, almeno fino al momento in cui i due popoli non riconosceranno ciascuno nell’altro una presenza permanente e ineliminabile. Non dico che debbano amarsi, ma devono entrambi non negare che l’altro faccia parte del suo presente. Noi siamo lontanissimi da questo obiettivo».
Ha quindi aggiunto: «Il nemico più grande della pace e della giustizia in Terra Santa è la condizione in cui entrambi i popoli credono di potersi sopraffare. Quest’atteggiamento è il più feroce nemico della pace: dal desiderio di vincere l’altro deriva la convinzione di poterlo far sparire». Quel che occorre è allora un profondo cambiamento di mentalità, che porti i due popoli ad accettarsi come inevitabili vicini, chiamati a scegliere fra l’eterno conflitto, fatto di odio e di sangue, e la ricerca di possibilità condivise, che si esprimano nella piena autonomia dei due Stati e nella volontà di una prossimità tesa a promuovere il bene per tutti.
Un’altissima testimonianza che questo sia possibile nonostante tutto l’ha data la Senatrice Liliana Segre quando, in riferimento all’attuale guerra, nella lettera letta alla manifestazione “No antiterrorismo e no terrorismo” a piazza del Popolo, promossa dalla Comunità ebraica di Roma e dall'Unione delle Comunità ebraiche italiane, ha affermato: «L’eterno ritorno della guerra mi fa sentire prigioniera di una trappola mentale senza uscita, spettatrice impotente, in pena per Israele, ma anche per tutti i palestinesi innocenti, entrambi intrappolati nella catena delle violenze e dei rancori». E ha aggiunto: «Non ho più parole. Ho solo pensieri tristi. Provo angoscia per gli ostaggi e per le loro famiglie. Provo pietà per tutti i bambini, che sono sacri senza distinzione di nazionalità o di fede, che soffrono e muoiono. Che pagano perché altri non hanno saputo trovare le vie della pace».
A questo dolore dovrebbero pensare quanti hanno responsabilità decisionali, per cercare a ogni costo vie di pace nella giustizia e nella verità. Il processo per percorrerle sarà lungo e la presenza cristiana, in particolare, non potrà sottrarsi allo sforzo di fare da “ponte” tra le parti, sostenendo un confronto che abbracci anche la sfida del reciproco perdono. Tutto questo richiederà forza morale, disponibilità al sacrificio e coraggio per attivare processi efficaci di riconciliazione. Rinunciare a questo sogno significherebbe, però, abbandonare ogni prospettiva di pace, come ha ricordato più volte papa Francesco, parlando della barbarie e dell’inutilità della guerra. Quando saranno pronte le parti in conflitto ad accettare la verità esigente di questo appello?
Bruno Forte è arcivescovo di Chieti-Vasto