A 6 anni dalla fine di Gheddafi. In Libia si può far tutto tranne lasciar fare
Come ogni 17 febbraio, venerdì scorso a Tripoli e in tutta la Libia si è festeggiato il sesto anniversario della fine del regime di Gheddafi. Non che in realtà vi sia molto da celebrare: se in pochi rimpiangono il periodo della dittatura, quasi tutti non nascondono la delusione e lo sconforto per le catastrofiche condizioni in cui le rivalità e l’insipienza politica della nuova élite di potere hanno precipitato il Paese nordafricano. L’impasse politica fra il debolissimo governo di unione nazionale di al-Sarraj – sostenuto dall’Onu, dall’Italia e, svogliatamente, da alcuni altri Paesi occidentali – e il generale Haftar – che controlla la Cirenaica e che si è autoproclamato 'protettore' della Libia dal caos e dal terrorismo – paralizza da troppo tempo ogni decisione politica e ogni progetto di ricostruzione economica. Ne approfittano i gruppi criminali, i trafficanti di migranti, le milizie che beneficiano della mancata normalizzazione. Qualche giorno fa, l’Egitto del presidente-generale al-Sisi, grande sponsor (non disinteressato) di Haftar ha organizzato un incontro fra i due contendenti, nel tentativo di raggiungere un compromesso.
Ma Haftar, all’ultimo, non si è presentato, irritando anche i suoi sostenitori nel mondo arabo. L’ennesima prova che egli non può essere la soluzione del problema Libia. Come invece sembrano continuare a pensare vari attori regionali e internazionali: un poco per comodità, perché si illudono che nel marasma libico, un generale a capo di un cospicuo esercito possa essere l’uomo forte che 'sistema le cose'. E un po’ per i propri interessi: l’Egitto per aumentare la sua influenza sulla Cirenaica; gli emiri del Golfo perché sono ossessionati dai Fratelli Musulmani e sostengono tutti quelli che li avversano; francesi e inglesi perché in Libia hanno sempre giocato su più tavoli, spesso in modo ambiguo. Ma la realtà è che il generale non è il comandante delle Forze armate nazionali, che in Libia non esistono. Pur predicando contro le milizie, egli ha raccolto attorno a sé un’armata patchwork, che unisce forze tribali ai resti delle vecchie forze armate di Gheddafi e finanche i gruppi salafiti. Un insieme più debole e meno unito di quanto si pensi. E quello che lo muove non è tanto il combattere jihadisti e gruppi criminali, quanto assicurarsi che il suo potere personale non venga intaccato da nessun governo civile. A meno che quest’ultimo sia un fantoccio nelle sue mani, come il parlamento di Tobruch. Non è però accettabile che un intero Stato dipenda dagli umori di un’unica persona.
Il punto di forza della strategia di Haftar risiede forse più nella fragilità del governo di al-Sarraj e nella incapacità di quest’ultimo nel gestire il potere. Non che sia facile farlo, visto che il passato regime aveva smantellato ogni forma di amministrazione organizzata, ma certo l’averlo scelto come primo ministro è stato un errore. Come uno sbaglio è stato aver nominato come inviato speciale, il tedesco Martin Kobler, ora fortunatamente sostituito dal nuovo segretario generale dell’Onu. In questi mesi, la nostra diplomazia è stata spesso fortemente criticata per essersi esposta più di ogni altra a favore del governo di unità nazionale. Siamo stati anche i primi a riaprire l’Ambasciata a Tripoli (seguiti per ora solo dalla Turchia). Per Roma è del resto essenziale, molto più che per gli altri attori internazionali, che la Libia rimanga un Paese unito, evitando ogni deriva centrifuga che la frammenti e renda endemica la esplosiva destabilizzazione voluta da altri sulla riva sud del Mediterraneo. Per di più, se vi è una speranza di gestire con umanità e ordine il flusso di migranti dalle coste nordafricane, essa risiede proprio in uno Stato unitario.
Questo, come è ovvio, non significa che l’Italia debba stolidamente rimanere ancorata alle decisioni prese in passato, o che non possa cercare un accordo con il generale Haftar. La ripresa di negoziati fra le diverse fazioni è un compito che spetta al nuovo inviato Onu, il palestinese Salam Fayyad, e può certo prevedere nuove intese e nuove scelte. L’unica cosa inconcepibile sarebbe quella di rinunciare, qui e ora, a «lasciar fare», senza tentare di gestire il caos libico, pur nella consapevolezza dei nostri limiti e dello scarso sostegno occidentale.