Editoriale. In Iran per il dopo Raisi non aspettiamoci grandi cambiamenti
Il presidente iraniano Ebrahim Raisi era un uomo dal passato terribile e sanguinoso, responsabile dell’esecuzione sommaria di centinaia di oppositori, evoluto poi in un grigio burocrate del clero sciita politicizzato, fedele ai voleri della Guida suprema della Repubblica islamica, l’ayatollah Ali Khamenei. Nell’incertezza di un momento così traumatico per l’élite al potere a Teheran vi sono due cose che appaiono evidenti: la prima è che ben pochi nel Paese piangeranno la sua morte improvvisa; la seconda è che non ci si deve aspettare grandi cambiamenti, tanto nella politica interna quanto in quella estera.
Egli è stato il primo presidente della repubblica iraniana a non entrare in rotta di collisione con Khamenei, che tiene le redini del potere reale, sia pure con mano sempre più incerta dato il progressivo deterioramento della sua salute e la crescita continua del ruolo dei Pasdaran, le guardie rivoluzionarie che stanno occupando via via sempre più i gangli vitali del regime. Tutti i suoi predecessori, dal pragmatico Rafsanjani al riformista Khatami, dal populista radicale Ahmadinejad al moderato Rouhani, avevano finito per scontrarsi con l’ingerenza continua della Guida suprema. Non Raisi, che aveva di fatto rinunciato ad avere una politica autonoma, fallendo anche nella gestione della disastrata e corrotta economia del Paese, unico vero compito che gli era stato assegnato. E del resto, il presidente, forte dei suoi 63 anni – un giovanotto rispetto alla gerontocrazia del clero sciita – aveva tutto da guadagnare nel tenere un profilo basso e attendista, ben attento a non scontentare la Guida o a inimicarsi i Pasdaran. Perché mentre il ruolo di presidente è sempre più svuotato di poteri reali, soprattutto in tema di politica estera e di sicurezza, la carica a cui egli palesemente puntava era quella di Rahbar, ossia di Guida suprema, una volta venuto a mancare l’anziano Khamenei.
L’altro nome più accreditato per questa posizione è quello del figlio stesso della Guida, Mojtaba Khamenei, se possibile ancora più tetragono e ultraconservatore rispetto al padre, legato a doppio filo ai servizi di sicurezza e alle guardie rivoluzionarie. Non a caso, fra i sussurri che giungono dall’Iran, alcuni sottolineano come ora, per Mojtaba, le cose si semplifichino e la corsa a succedere al padre sia più agevole. Ma più che alla dietrologia è utile ora guardare alla future mosse del sistema di potere di Teheran. Entro cinquanta giorni si dovrebbero tenere delle nuove elezioni (per quanto le norme costituzionali siano sempre interpretate elasticamente in Iran). Sembra molto improbabile che il sistema permetta di tornare all'ormai lontano tempo in cui alle elezioni si presentavano candidati con agende politiche molto differenti fra loro. Quel periodo sembra definitivamente chiuso: verrà scelto probabilmente qualche esponente di medio profilo e del tutto allineato con Khamenei. A meno che i Pasdaran vogliano tentare di imporre direttamente un proprio uomo alla presidenza della repubblica, forzando la mano all’indebolito potere clericale. In ogni caso sembra quasi impossibile che siano permesse proteste o il ritorno dei moderati, tanto meno dei riformisti sulla scena politica attiva.
E tanto meno vi saranno cambiamenti di rotta in politica estera: l’attacco diretto a Israele di qualche settimana fa ha mostrato la radicalizzazione delle strategie di sicurezza iraniane e la volontà di rispondere a ogni provocazione con accresciuta aggressività. Non era certo Raisi che poteva decidere su questi temi, né le farà il suo successore. Chi paga il conto maggiore della sua morte, con una diminuzione di forza che potrà avere conseguenze, è proprio il clero politicizzato tradizionale, screditato agli occhi della popolazione e sempre più marginalizzato dall’attivismo dei Pasdaran. Raisi era in fondo uno dei pochi nomi ancora spendibili a livello politico fra i rivoluzionari della prima ora: troppi ormai i religiosi morti o epurati politicamente. Le nuove leve religiose, fra cui lo stesso Mojtaba, o sono ancora poco “affidabili” o sono troppo legate ai nuovi poteri laici. Paradossalmente, almeno per un regime che voleva il governo diretto dei religiosi esperti di diritto islamico, gli effetti di quarantacinque anni di Repubblica islamica sono la perdita di credibilità e di influenza del clero sciita su buona parte della società iraniana. Ma arroccati come sono nel palazzo della loro retorica e di un potere oppressivo e corrotto non sembrano più capaci di vedere la realtà.