Resistiamo ai non-luoghi e ai non-sensi politici
La democrazia in crisi è colpa della «gente» (brava o povera che sia)? L’offerta politica incentiva minoranze radicalizzate e maggioranze disorientate. Perciò serve rinnovato impegno
Gentile Marco Tarquinio,
mi collego alla lettera che le scrisse Luca Doninelli e alla quale lei ha dato risposta su “Avvenire” del 4 giugno 2023: «Politica, spazio delle “brave persone” e fair play di Dio». Lo scrittore definisce «brave persone» quelle che però, rilevo io, non credono più alla libera partecipazione, e dunque alla Repubblica. Penso che si tratti di persone ormai devote a loro non-luoghi delimitanti, illusori. Quindi non vi è solo un problema di partitocrazia, un impedimento a «varcare con successo tutti i meccanismi perversi che regolano l’accesso alle liste elettorali». Non avrebbe tutti i torti chi teme che, fatto (o fattosi) fuori chi «si strugge per il bene comune», l’impoverimento di comodo dell’offerta politica possa portare al dominio dell’homo oeconomicus e a una condizione opposta a ciò che formerebbe una comunità di destino – anzitutto bisognosa di partecipazione e di non riconoscersi esclusivamente nella narrazione individualista e, anzi, di rivederla. Di carne al fuoco quindi ve ne sarebbe parecchia, ma l’umiltà è purtroppo svanita. Per me, umiltà significherebbe abbandonare ogni bolla e tornare all’osservazione semplice della realtà, ma chi lo vuol più fare? La nuova esposizione mediatica (su vecchi e nuovi media), che tanto nuoce al personale politico, è la punta di un iceberg che riguarda solo parzialmente la delegittimazione strumentale della politica rappresentativa. Da decenni si sta progressivamente (sic!) deteriorando la possibilità di preservare nel cuore e nella mente dei cittadini un margine utopico extra-egoistico. L’imbastardimento della dimensione politica (liberaldemocratica) dell’esistenza culminò nel pericolo sovietico di cui era gravida la stagione della guerra fredda, e ha finito per gettare nel fango delle ideologie stataliste la capacità utopica dei sistemi (realmente) democratici. Sicché ancora oggi siamo fermi ai non-luoghi...
Daniele Ensini
Caro Marco Tarquinio,
non ho difficoltà a spiegarmi come mai la «povera gente» (Giorgio La Pira) non vota la sinistra, persa da troppo tempo a inseguire «nuovi diritti» di sparute minoranze, ambigua sulla dignità inviolabile della persona, disattenta a diritti “vecchi” ma tutt’altro che garantiti: un sistema fiscale meno drammaticamente iniquo, una scuola per tutti, un lavoro dignitoso e adeguatamente tutelato, una sanità più omogenea... Fatico, invece, a comprendere come la citata «povera gente» voti così massicciamente a destra. Posso capire che non tutti siano più disposti a votare secondo princìpi e valori, ma che non si voti neppure per tutelare (legittimi) interessi è davvero strano. Davvero un po’ di terrorismo mediatico sull’«invasione» di immigrati è sufficiente a far dare il voto a chi esplicitamente è intenzionato a manomettere ulteriormente il sistema fiscale, a peggiorare il divario tra Nord e Sud, a diminuire tutele e welfare, a compromettere lo sviluppo del Paese? Posso capire, anche se non sono d’accordo, che votino (legittimamente) in questo modo gruppi sociali che ne traggono vantaggio. Ma mi colpisce e stupisce l’entità dei consensi che in questi momenti le destre ottengono coinvolgendo gruppi sociali che certamente ne avranno svantaggi.
Anselmo Grot
Le due lettere, diversamente appassionate, con cui ho deciso di dialogare oggi portano al cuore di altrettanti equivoci. Che, come si vede, finiscono per coincidere. La “colpa” della sfiducia nella politica e della crisi della democrazia sarebbe della «brava gente» che si tiene alla larga dagli attuali partiti e schieramenti e, spesso, non esercita più il proprio diritto di voto. Allo stesso modo il voto contraddittorio di tanta «povera gente» sarebbe da imputare alla fin fine esattamente a coloro che lo depositano nell’urna. Attenzione, in questa maniera si assolvono i partiti per la scarsa qualità e la strumentalità mediocre di tante delle proposte offerte all’opinione pubblica. La coincidenza di cui dicevo sta proprio in questo “colpevolizzare” chi, in modi diversi, fa emergere dal basso le contraddizioni di una stagione politica segnata dalla fine dei partiti basati su idee forti, e con un’intima coerenza, dell'umanità e del mondo, cioè su “pensieri lunghi” e (diversamente) coinvolgenti.
Seguo il filo dei due ragionamenti e ne colgo le motivazioni profonde e rispettabili, ma non sono d’accordo. Dico e scrivo da molti anni che quando mancano ideali grandi spesso, anzi, quasi sempre, si finisce con l’inseguire piccoli interessi che molte volte si rivelano anche autolesionisti e purtroppo persino disastrosi. Lo ripeto anche oggi, con profonda amarezza. Ma non mi passa neanche per l’anticamera del cervello di dare la colpa alla “gente” (brava o povera che sia) per il fatto che la politica rischia di diventare, come denuncia il lettore Ensini, un “non-luogo” abitato da minoranze radicalizzate e da maggioranze disorientate e sempre più demotivate alla partecipazione democratica. Tutto questo accade anche e soprattutto per la riduzione dei messaggi della politica stessa a slogan individualisti e sovente distorcenti (dal malinteso “dirittismo” di certa sinistra alla ostentata xenofobia e al malcelato razzismo di un bel pezzo della destra). Un fenomeno che continua ad accompagnare sia l’affermarsi del leaderismo (partiti e movimenti a guida carismatica invece di partiti comunità), sia la crescente incapacità di attrarre e portare ai seggi gli italiani, sia – infine – la progressiva perdita di logica in scelte elettorali che si fanno umorali e in molti casi possono apparire sospese tra calcolo, superficialità e non-senso.
Il problema, davvero enorme, è che finiscono in questo pentolone ribollente ingredienti che dovrebbero essere maneggiati con consapevole cura. Come, appunto – lo ricorda alla sua maniera il professor Grotti –, le politiche sanitarie e fiscali e la gestione dei flussi migratori. A quest’ultimo proposito mi colpisce moltissimo, e ormai da molti anni, che l’ossessione di fermare e respingere quelli che stanno alla nostra porta e bussano spinge a non capire più che gli uomini e le donne sono la ricchezza delle società, ma anche a non vedere per davvero quelli che guadagnano l’uscita e se ne vanno dal Bel Paese: giovani e meno giovani, vecchi e nuovi italiani, in cerca di un orizzonte più sereno o solo più credibile. Tra loro tanti protagonisti delle professioni sanitarie (proprio mentre si annuncia una crisi del nostra sanità per mancanza di personale medico e infermieristico) e anche quelli che sono invogliati a radicarsi in altri Paesi dove il fisco appare più “amico” e semplice, perché tutti pagano e dunque tutti pagano meno, e magari dove si premiano i contribuenti leali e non si regalano – come da noi – condoni a ripetizione ai contribuenti sleali. Proviamo a ragionare su questo, e forse cominceremo a venir fuori dal vicolo cieco in cui la nostra politica si è inoltrata, trascinandoci con sé.
Ma visto che vengono evocati i “non-luoghi” che sono sede dei nostri umani e civili spaesamenti, mi pare opportuno citare anche dei “luoghi” dove si prova a riaccendere la speranza e il pensiero impegnato, ancorando entrambi a valori che illuminano il cammino e che nell’esperienza della vita comunitaria, cioè nella dimensione sociale e politica, possiamo comprendere e incarnare via via meglio. Si tratta di luoghi offerti e animati da associazioni e reti civiche, laiche e confessionali. Tanti sono organizzati e promossi da realtà cattoliche. Nelle nostre diocesi c’è un buon numero di “scuole” nelle quali si continua a fondare e ad affinare la vocazione politica. Ma è un impegno che ha anche una dimensione ecumenica. Continua, per esempio, la “Scuola per la democrazia” promossa dal Centro culturale valdese in collaborazione con la Fcei e l’Università Roma La Sapienza, che quest’anno si terrà a Torre Pellice (dal 2 all’8 luglio), proponendo una serie di sessioni e incontri sotto al titolo «I colori della democrazia: diritti, doveri, responsabilità». Sono stato invitato anch’io e sarò lieto di contribuire alla riflessione della tavola rotonda finale.
I luoghi della partecipazione e della democrazia, infatti, diventano reali quando li abitiamo, rispettiamo e valorizziamo. E se è vero che chi sta al timone e al comando porta la responsabilità delle rotte sbagliate e del degrado del clima politico, ognuno di noi – semplice, povera e brava gente – può fare la propria parte con capacità critica, disponibilità all’ascolto e idee chiare su ciò che vale davvero. Con una battuta, molto seria, potrei dire che oggi come alla sua alba la nostra democrazia va riguadagnata grazie a una plurale e solidale scelta di resistenza. Non solo un diritto, ma un dovere.