Il direttore risponde. In cerca di affidabile chiarezza
Gentile direttore,
in merito agli aspetti etici e professionali del trattamento di fine vita, su cui si sta discutendo da molto tempo, mi sembra opportuno, come medico, prospettare, in aggiunta a quanto correntemente si propone, alcune considerazioni inerenti alle funzioni del medico. Fra i tanti argomenti discussi non mi sembra che sia stata rivolta adeguata attenzione alle sofferenze cui il malato può andare incontro in seguito alle misure terapeutiche attuate. Può darsi che il curante con la migliore intenzione di rendersi utile si impegni in interventi terapeutici molteplici, più o meno invasivi, che possono anche dare una iniziale impressione di una certa utilità, purtroppo per lo più transitoria, ma essere molto fastidiosi o addirittura dolorosi per il paziente. Nella mia carriera mi sono trovato di fronte a malati che a un certo momento della degenza hanno chiesto di essere liberati da ossessivi interventi, quali le infusioni venose di vario tipo ripetute nella giornata, cortisonici, analettici, antibiotici, antidolorifici e così via, e di essere lasciati morire in pace. In alcuni casi si trattava di interventi al confine fra accanimento e ragionevole condotta terapeutica. Non è fuor di luogo ricordare che il paziente ha sempre diritto a rifiutare la terapia, come ci è stato anche insegnato da luminosi esempi di Giovanni Paolo II e da Carlo M. Martini. Personalmente sono convinto che anche nello stato di incoscienza, profonda o meno, il malato possa manifestare minuziosi segnali, quali appena percettibili movimenti delle labbra e degli occhi, che spesso vengono interpretati come segni vitali favorevoli, e invece essere segnali di insofferenza e di rifiuto del dolore. Chi può essere sicuro al riguardo? Una corretta interpretazione di questi segnali potrebbe venire principalmente dai familiari, che sono spesso in grado di conoscere le reazioni emotive del paziente, e dal medico curante che è chiamato ad apprezzare meglio il rapporto fra misura e tipo dello stimolo con la qualità e tipo della reazione del malato. A tal punto di fronte a un possibile incremento della sofferenza ci si deve chiedere se sia moralmente lecito proseguire nelle terapie più impegnative e non limitarsi a minime infusioni nutritive nell’attesa di una eventuale, poco probabile ripresa. Penso che il medico, e non il legislatore, sempre più sarà chiamato a una scrupolosa e sapiente valutazione di ogni singolo caso con l’attenta considerazione degli apporti provenienti dal contesto familiare. Con molti cordiali saluti.
Domenico Andreani, Professore Emerito della Facoltà Medica dell’Università di Roma "Sapienza"