«Io seguo la Chiesa» /1. In cammino nel solco della fraternità
Papa Francesco saluta dalla loggia centrale della basilica di san Pietro il giorno dell’elezione (13 marzo 2013)
Stefania Falasca avvia oggi una serie di analisi sulle linee maestre del Concilio Vaticano II che sono state seguite e portate avanti da Papa Francesco nel suo Magistero. La serie «Io seguo la Chiesa» è un excursus sulle radici del suo Magistero e della sua missione nel solco della Tradizione. (Leggi tutti gli articoli della serie CLICCA QUI)
«Non sono io. Questo è il cammino dal Concilio che va avanti, che s’intensifica. Io seguo la Chiesa. Non ho dato nessuna accelerazione. Nella misura in cui andiamo avanti, il cammino sembra andare più veloce, è il motus in fine velocior come dice Aristotele». Con queste affermazioni, nell’intervista rilasciata per « Avvenire» il 17 novembre 2016, papa Francesco delineava con molta chiarezza la prospettiva del suo ministero petrino e ricordava – sgombrando il campo da confusioni – che per sua natura la Chiesa non è proprietà del Papa e che dunque non è il Papa a fare la Chiesa, perché l’unico artefice è Cristo e Sua è la Chiesa ( Ecclesia Suam). Dichiarava così di andare avanti nel solco della Tradizione e di seguire la Chiesa.
Una prospettiva che non era una novità. Già la sera del 13 marzo 2013, subito dopo l’elezione, affacciandosi al balcone di San Pietro per la prima benedizione apostolica, papa Francesco l’aveva esplicitata come programma sulla base delle fonti conciliari. In quelle prime parole infatti, che sembravano estemporanee, vi era già presente il riferimento diretto a due documenti centrali del Vaticano II: la Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla natura della Chiesa e la Costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Queste le sue parole: « Fratelli e sorelle, buonasera! E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa [...] sia fruttuoso per l’evangelizzazione».
È l’incipit con il quale il Papa indicava da subito la strada sulla quale avrebbe camminato. E nel quale manifestava da subito la volontà di farsi prossimo, fratello per tutti, quale espressione dell’«intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana», come viene descritta nel Proemio della Gaudium et spes. La quale sarà all’origine dell’invito alla prossimità e richiamo alla «conversione pastorale» rivolto a tutta la compagine ecclesiale a partire dall’esortazione Evangelii gaudium fino all’enciclica Fratelli tutti, dove, senza frontiere ha evidenziato come Cristo interpella affinché tutti diventiamo prossimi degli altri. L’invito poi a compiere il cammino insieme rimandava direttamente al secondo capitolo della Lumen gentium dove si afferma, testuali parole, che «vescovo e popolo fanno un cammino insieme». Da qui la sinodalità, che significa appunto “camminare insieme”, modalità costitutiva e stile che appartengono alla natura apostolica propria della Chiesa e che in questi dieci anni è stata rimessa in moto nei sinodi promossi dal Papa a partire da quello sulla famiglia.
Come Vescovo della Chiesa di Roma, «che presiede nella carità tutte le Chiese» riprendeva inoltre la sorgente del suo ministero universale a cui è affidato il compito in quanto Successore di Pietro: quello di ricercare l’unità dei cristiani. Ricerca che lo ha portato a intensificare il cammino cominciato dal Concilio con il decreto Unitatis redintegratio. Per concludere infine «perché ci sia una grande fratellanza». Preghiera con la quale prefigurava la ricerca dell’unità del genere umano e della pace, che sono confacenti al ministero petrino e che lo hanno portato attraverso il dialogo – valore non negoziabile per un cristiano perché è radicato nell’agire di Dio verso l’uomo, come tutta la storia della Salvezza evidenzia – a gettare ponti dall’Occidente all’Oriente. Questo primo pronunciamento nel suo insieme è perciò da considerarsi il compendio di una visione ecclesiale scaturita dal solco della Tradizione e maturata dall’ecclesiologia conciliare, che nel corso del suo pontificato è andata avanti, sviluppandosi e intensificandosi. Si è trattato dunque di un programma che sgorga dall’aver fatto proprio, come figlio, il Concilio Vaticano II nella sua interezza come ressourcement «risalita alle sorgenti», insieme dalla «capacità che lì la Chiesa ha mostrato di lasciarsi fecondare dalla perenne novità del Vangelo di Cristo» come ha spiegato nel Discorso all’Associazione teologica italiana il 29 dicembre 2017.
Da quella benedizione iniziale del pontificato si è così delineato il cammino percorso lungo le strade maestre indicate dal Concilio: la risalita alle fonti del Vangelo, una rinnovata missionarietà, la sinodalità, il servizio ecclesiale nella povertà e il dialogo con la contemporaneità, la ricerca dell’unità con i fratelli cristiani, il dialogo interreligioso, la ricerca della pace. E seguire il cammino della Chiesa che dal Concilio va avanti cosa ha significato in questi anni? Ha significato, ad esempio, proseguire quanto affermato nella Nostra aetate firmata da Paolo VI e da tutti i Padri conciliari il 28 ottobre del 1965 e legarsi ai destini degli uomini ai quali la Chiesa non può essere estranea. Ha significato portare avanti il dialogo con le altre religioni e considerarle al servizio della fraternità e della pace. Ha significato intraprendere i viaggi apostolici dalla Terra Santa all’Egitto, dal Marocco all’Iraq, al Kazakistan, al Bahrein, in Sud Sudan e firmare il documento di Abu Dhabi con il leader sunnita di Al-Azhar, siglato il 4 febbraio 2019: « Non c’è alternativa: o costruiremo insieme l’avvenire o non ci sarà futuro. Le religioni, in particolare, non possono rinunciare al compito urgente di costruire ponti fra i popoli e le culture. È giunto il tempo in cui le religioni si spendano più attivamente, con coraggio e audacia, senza infingimenti, per aiutare la famiglia umana a maturare la capacità di riconciliazione, la visione di speranza e gli itinerari concreti di pace».
Una traiettoria in sostanza, che comprende il disegno della fraternità non come strumento o auspicio, ma come opera da applicare ai rapporti internazionali, per superare i mali e le ombre di un mondo volto a implodere. Quella che già nella sua enciclica sociale Caritas in veritate Benedetto XVI aveva indicato come «l’ideale cristiano di un’unica famiglia dei popoli, solidale nella comune fraternità» ed è presente nella prima lettera dell’Apostolo Pietro: «Cristo ci invita alla fratellanza universale». Fraternità che affonda le sue radici nel «Vangelo di Gesù Cristo» come scrive in Fratelli tutti: « Altri bevono ad altre fonti – afferma Francesco – . Per noi, questa sorgente di dignità umana e di fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo».
Dal Concilio al Vangelo, dunque. E che a oltre dieci anni dall’inizio del suo ministero, papa Francesco debba ancora ribadire come le sue peregrinationes «non sono un capriccio, sono la linea che il Concilio ha insegnato » e che «siamo ancora a metà strada per attuarlo», la dice lunga su quanto ancora ci sia bisogno di insistere affinché si comprenda non solo quali sono le vie d’uscita in un mondo travolto dai conflitti, ma dove affondano le radici dell’agire e del magistero di papa Francesco e cos’è la Chiesa e la sua missione nel solco della Tradizione. Sarà forse utile dunque ripercorrere come l’attuale Successore di Pietro ha seguito fin qui le strade maestre indicate dal Concilio e sulle quali oggi sta continuando a camminare. A cominciare dall’inizio: dalla rinnovata missionarietà risalendo, con il Concilio, alle sorgenti.