In ascolto della vita / 19. Questo è il posto di Dio
«Forse un tratto del volto crocifisso si cela in ogni specchio; forse il volto morì, si cancellò, affinché Dio sia tutti. Chi sa se stanotte non lo vedremo nei labirinti del sogno e non lo sapremo domani»
Jorge L. Borges, L'artefice
Il valore della vita dei profeti non sta nella nostra capacità di imitarla. Sono i falsi profeti che si presentano come modelli da imitare, ma i profeti veri sanno che se mostrano sé stessi come la realizzazione etica delle parole che annunciano, finiscono per diventare degli idoli, e così oscurare, come in una eclisse, il loro ideale. I profeti sono preziosi se e in quanto inimitabili e diversi da noi. Isaia non ha salvato il suo popolo tramite l’imitazione dei suoi discepoli, che, se si fossero limitati a questo, avrebbero soltanto ridimensionato il suo messaggio e tradito la sua memoria. I segni e i gesti profetici sono potentissimi quando compiuti dai profeti, ma diventano parodie o commedie quando li compiamo noi per imitarli. Non si va nudi per tre anni per copiare Isaia, non si gira la città con un giogo sulle spalle per ripetere Geremia, né ci si fa crocifiggere per imitare Gesù Cristo, né si risorge. Questi gesti si fanno per vocazione non per imitazione, quando ci sentiamo chiamare per nome e riusciamo a capire che non possiamo fare altro se vogliamo sperare di salvare qualcosa di bello e vero dentro l’anima. E mentre siamo in quella nudità, sotto quel giogo, su quella croce, solo e soltanto nostri, e quindi unici, irripetibili, inimitabili, i gesti e le parole dei profeti ci sono di nutrimento, diventano compagni di viaggio, rendono i nostri gioghi più leggeri, le nostre morti più soavi.
Siamo arrivati al termine del ciclo di Ezechia che chiude i capitoli del primo Isaia. Abbiamo appena visto quel re giusto uscire vincitore dalla prova rappresentata dalla salvezza idolatrica del re assiro, grazie al ruolo essenziale svolto da Isaia. Ora il Libro ce lo mostra alle prese con un’altra diversa e grande prova, ancora con il profeta al suo fianco: «In quei giorni Ezechia si ammalò mortalmente. Il profeta Isaia, figlio di Amoz, si recò da lui e gli disse: "Così dice il Signore: Da’ disposizioni per la tua casa, perché tu morirai e non vivrai". Ezechia allora voltò la faccia verso la parete e pregò il Signore dicendo: "Signore, ricòrdati che ho camminato davanti a te con fedeltà e con cuore integro e ho compiuto ciò che è buono ai tuoi occhi"». Ed Ezechia scoppiò un gran pianto (Isaia 38, 1-3). Ad annunciare a Ezechia che la sua malattia è mortale è Isaia. Non tutti abbiamo un profeta a dirci che è arrivata l’ultima tappa della nostra vita, né qualcuno vicino che ci ama e quindi ci dice che stiamo per giungere alla fine della corsa. Nessuno vorrebbe annunciare agli amici che il loro ultimo giorno è vicino. Vorremo dire loro altre parole ("coraggio, vedrai che ti riprendi", "ce la faremo"…), donare speranza non vana, intravvedere una resurrezione.
Qualche volta, però, queste parole non le possiamo dire se vogliamo essere veri. Allora preferiamo tacere, trattenere il groppo in gola, abbracciare, accarezzare, e soprattutto stare. Ogni tanto, però, c’è un amico, una moglie, un fratello, che sente che amore più grande è dirci che è giunta la nostra ora. E così rivive Isaia, rivive Ezechia, anche se non lo sanno, anche se non lo sappiamo - il mondo è pieno di brani biblici vivi e incarnati da persone che non hanno mai letto né ascoltato un riga di Bibbia, brani non sono meno veri di quelli che recitiamo ogni mattina: se così non fosse, la Bibbia sarebbe soltanto un libro sacro per il culto, e non anche una storia viva che continua a vivificare grazie all’amore e al dolore dei tanti analfabeti di religione capaci di scrivere splendidi brani del libro vero della vita. Attraversiamo la terra sapendo che questo spettacolo magnifico che ci incanta per la sua bellezza non è per sempre, che un giorno dovremmo lasciare le montagne, i fiori, gli amici, il mare. Sappiamo che questo "per sempre" non ci appartiene. C’è anche questa venatura di melanconia dentro la felicità che ci ridona lo sguardo di un panorama alpino, un bosco in autunno, un figlio. Ma la vita è più grande, e quando si sviluppa bene e fiorisce, la bellezza eccedente della creazione ricopre quella sottile ombra, che pur riaffiorando nei giorni della tristezza non riesce a diventare il tema dominante della nostra esistenza. Finché non arriva "quel giorno", e tutto cambia.
Ciò che era lo sfondo meraviglioso del nostro cammino, improvvisamente ci si rivela per quello che realmente era: solo dono, un grande, immenso, sovrabbondante dono. Dono le persone, dono gli amici, dono la nostra famiglia, dono le famiglie e i bambini degli altri. Per la bibbia anche la presenza di Dio nel mondo è dono: «Non vedrò più il Signore, non guarderò più nessuno fra gli abitanti del mondo» (38,11). È sempre stupendo e stupefacente ritrovare queste parole dentro la Bibbia. Per l’uomo biblico, il luogo dell’esperienza religiosa non è il paradiso: è la terra, l’unico posto che ci è dato per le teofanie, per parlare con gli angeli, per sentire il tocco di Dio. E questa è una notizia meravigliosa. È la terra dove Abramo ha udito la voce di Elohim, è la terra dove YHWH ha parlato a Mosè, la Promessa è promessa di una terra non di un cielo. È la terra dove i profeti hanno visto il Signore, è stato un mare di questa terra che un giorno si aprì per liberare un popolo schiavo. Fu la terra del Golgota a raccogliere il sangue del crocifisso, la terra del sepolcro accolse il suo corpo. La terra di Galilea lo vide risorto, ed è la qualità della vita sulla nostra terra che dà senso a quella resurrezione - Paolo ci dice che la nostra fede è vana senza la resurrezione di Cristo, ma anche la resurrezione è vana senza la nostra fede, che è possibile solo su questa terra.
Se la fede biblica è ancora vera oggi, Elohim deve allora continuare a essere ascoltato, visto, incontrato su questa terra. Per la fede in un dio o dèi immortali, che abitano da qualche parte nei cieli, non c’era bisogno della rivelazione biblica, era già presente nell’immaginario religioso dei popoli. È facile essere atei negando un dio celeste e lontano, molto più difficile essere atei del Dio biblico, perché occorre affrontarlo, combatterlo e vincerlo su questa terra, nel suo guado notturno. L’unica speranza che abbiamo allora di poter chiudere gli occhi "quel giorno" e riaprirli diversamente, ma veramente di là, è aver intravvisto qui il divino con i nostri occhi, aver sentito qualche soffio o eco della sua voce, averlo riconosciuto sulla bocca dei profeti - almeno averlo desiderato, o sognato, anche una volta sola.
La morte non poteva essere vista da Ezechia e dai suoi contemporanei come la "porta del paradiso" dei giusti, ma come la fine del dono della vita e inizio di qualcosa di buio e pauroso: «Sono trattenuto alle porte degli inferi per il resto dei miei anni» (38,10). Il racconto ci dice che Ezechia pianse a dirotto. Diversamente dai patriarchi d’Israele, non è "sazio di giorni": «A metà dei miei giorni me ne vado» (38,10). La morte prematura si rivestiva, poi, anche di un significato divino punitivo, collegata a una qualche colpa (tipico della religione retributiva molto radicata nel mondo antico, Israele compreso). Il re è giusto, non accetta la morte con rassegnazione, e prega: "Ricordati Signore che ho camminato davanti a te con fedeltà". Non siamo mai pronti per morire, perché è un atto unico del quale non possiamo fare esperienza diretta. Impariamo a morire vivendo la morte degli altri che ci vengono strappati, e così ci manca l’amicizia con la nostra morte. Quando però la morte arriva nel pieno degli anni è davvero il grande "nemico" che irrompe nella notte per rubare, falciare, tagliare: «Come un tessitore hai arrotolato la mia vita, mi hai tagliato dalla trama» (38,12). Allora Ezechia piange e grida: «Come una rondine io pigolo, gemo come una colomba» (38,13-14). Questo pianto del re giusto diventa una preghiera potente e miracolosa. YHWH l’ascolta, interviene, e invia ancora Isaia a portare questa volta il lieto annuncio di salvezza: «Ho udito la tua preghiera e ho visto le tue lacrime; ecco, io aggiungerò ai tuoi giorni quindici anni. Libererò te e questa città dalla mano del re d’Assiria» (38,5-6). Il pianto di Ezechia "commuove" Dio. Come quello di Agar, quando cacciata da Sara nel deserto pianse, e le venne incontro il primo angelo, per consolarla e salvarla.
Isaia annuncia al re la salvezza della città, la sua guarigione e il dono di molti altri anni di vita. È la resurrezione di Ezechia. Quando inizia il tempo delle nostre malattie mortali, quando precipitiamo nelle angosce e esplodono i nostri pianti a dirotto, noi non vediamo arrivare i profeti a portarci il lieto annuncio di una resurrezione. Ma può accadere, ogni tanto, di uscire vincitori dalla lotta con un tumore che sembrava mortale, e così ritrovarci vivi dopo aver visto la morte arrivare all’orizzonte. E, qualche volta, recitiamo il salmo di lode di Ezechia. Altre volte, le più numerose, piangiamo forte, pigoliamo come rondini e colombe, preghiamo fino alla fine per noi o per chi amiamo, ma la vita non torna. Anche quando gli anni non ci vengono ridonati, possiamo intonare il canto dei salmi, possiamo chiamare i profeti e il loro Dio al nostro capezzale, perché se lo abbiamo incontrato almeno una volta possiamo rincontrarlo ancora. E se non abbiamo mai incontrato né desiderato Dio e i profeti, o se li abbiamo conosciuti e desiderati da giovani e poi li abbiamo voluti dimenticare per sperare di diventare adulti, possiamo sempre rimparare un’ultima preghiera, o farcela recitare da un amico buono. E poi attendere fiduciosi l’abbraccio dell’angelo.
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