«Il successo viene certo dal talento, ma più ancora dal lavoro, dall’esperienza e dalla fedeltà: alla propria arte come alla propria donna. Mi sono dato la regola di dare il meglio, sempre. Anche se non sempre ci si riesce». Parole di Ennio Morricone, in un’intervista rilasciata al 'Corriere della Sera' dopo la vittoria dell’Oscar. Parole da far leggere ai ragazzi, possono aiutarli. L’affermazione fa infatti piazza pulita della teoria del genio, del talentuoso, dell’intelligente. Non si fa mai un buon servizio a dare dell’intelligente a un bambino, men che meno nel ripeterglielo a ogni piè sospinto dopo l’ottenimento di buoni risultati e successi. Imputandogli in continuazione l’intelligenza si può favorire in lui il divenire presuntuoso, ossia un soggetto che presume di poter arrivare al risultato via intelligenza. Invece ci si arriva via lavoro, come con una certa umiltà racconta il musicista. Ci sono bambini predicati di intelligenza che smettono di andare bene a scuola nel momento in cui le richieste superano la soglia dell’intuizione e occorre mettercisi. Mettersi in qualcosa significa coinvolgersi, implicarsi, assumere i concetti e le nozioni, giudicarli, rielaborarli e farli infine diventare propri. Così, si impara. Il presupposto dell’intelligenza rischia di impedire questo lavoro di apprendimento, di presa del – e sul – reale; non è raro l’insuccesso nella scuola e nell’università di questi ragazzi così predicati da bambini. Ci sarà capitato di sentire dei giovani studenti affermare 'quello lì va sempre bene e non ha bisogno di studiare'. Che poi viene tradotto in 'quello lì è un genio'. Fosse anche vero che in qualche situazione quel compagno non ha avuto bisogno di studiare, ciò può essere accaduto solo a condizione che il suo tempo in classe sia stato fatto fruttare al massimo. E questo resta a tutti gli effetti un lavoro – quello dell’impegno, dell’attenzione e della concentrazione – che tra l’altro si innesta su un lavoro già svolto in precedenza. Un atto libero, frutto di un giudizio di convenienza e interesse, non certo di un automatismo. C’è di mezzo la fedeltà, ricorda Morricone. Vero. Si tratta della fedeltà a quel principio individuale che connette atto e risultato e lega la soddisfazione al lavoro per ottenerla. Non induciamo i bambini nella tentazione di rinnegarlo. Non sarebbe intelligente.